San Siro, finale di Champions. Giorno? Il 25 maggio. Come due anni fa, fra Real Madrid e Atletico. Non proprio la stessa cosa, però. Provate, infatti, a chiudere gli occhi. Sostituite i pantaloncini con un abito talare e aggiungete “Don” davanti ai nomi dei calciatori. Sì, avete capito bene. In campo non ci saranno Ronaldo e Sergio Ramos, ma una squadra di…preti. European Football Championship Priests il nome del torneo: “Ho dovuto cambiare l'originale, perché la CEI mi ha informato del fatto che la parola Clericus era già presente nell’attività sportiva della Santa Sede. Certo che così solo il titolo occupa mezza locandina…”. A dirlo, con il sorriso, è Moreno Buccianti. Uno che ha sulle gambe più di mille partite fra i dilettanti. Uno che, dal 2005 ad oggi, è alla guida della Selecao Sacerdoti Calcio (Leggi qui). Uno che, ormai da diversi mesi, sta organizzando il primo Europeo di calcio a undici per preti. Dal 22 al 25 maggio, con finali a San Siro: “L’ho affittato per un’ora – spiega – poi ci sarà un bel buffet tipico toscano nella sala executive. Non male, vero?”. Italia, Croazia, Portogallo, Spagna, Polonia e Città del Vaticano le sei partecipanti. Un obiettivo: “Fare la nostra figura, dopo tutto il mazzo che mi sono fatto (ride n.d.r). Però portoghesi e croati sono veramente forti. Li osservi e ti domandi ‘ma questi sono preti?’. Certe batoste con loro…”. Insomma, ci sarà bisogno di qualche preghierina prima di scendere in campo. Come quelle che fa Don Rosario prime di ogni partita dell’Inter: “Per qualificarsi alla Champions questo e altro” Ci racconta con il sorriso. Lui, di fede nerazzurra. Portiere della Selecao dal 2006: “Sono uno dei veterani, ma non il Capitano. L’ho fatto solo una volta, nel giorno in cui Milito schiantava il Bayern e ci faceva alzare la Champions a Madrid. Coincidenza?”. Zoff l’idolo: “Ma anche Terraneo e Pulici. Se mi fischiano un rigore contro al 95’ reagisco come Buffon al Bernabeu? Beh, le proteste ci sono sempre”. Tanta voglia di giocare, dunque. Una sicurezza: “Lo sport e la musica sono le due lingue principali del mondo. Gioco a calcio da 25 anni e ho imparato tanti valori. Un esempio? Non fumo perché gli allenatori mi dicevano di non farlo. E poi il calcio mi ha anche levato dalla strada”.
Un ritiro al mese. Camere doppie, allenamenti e riunioni tecniche come una qualunque squadra di A. Una speranza: “Che non si abbuffino alle varie sagre di paese”, scherza Moreno. Don Pierluigi è al primo raduno, a San Marco in Lamis, Puglia: “Per me è tutto così nuovo – ci svela – sono entrato attraverso un collaboratore del Mister, conosciuto nella mia parrocchia. Qui l’importante non è vincere, ma partecipare e raccogliere fondi a scopo benefico. Per fortuna aggiungo, perché non sono un fenomeno”. Gioca a centrocampo, sulla fascia destra: “Punto sulla velocità, anche perché sono molto basso…”. Totti e Van Basten gli idoli. Fiuggi la sua terra, la Roma la squadra tifata da papà, colui con cui ha tirato i primi calci al pallone. ”E se rimontiamo con il Liverpool scendo in piazza a festeggiare”. Proprio come farebbe Don Matteo. No, non quello che va in giro con la bici a inchiodare i criminali. Ma un giocatore della Selecao, dal 2007 per la precisione. Ruolo? Centrocampo: “Ma anche difesa all’occorrenza” Precisa. Una passione nata sugli spalti dello Zaccheria, ad ammirare il Foggia di Baiano e Signori: “Ma tutt’ora amo andare in Curva Nord – racconta – c’ero anche nel derby con il Bari. Che peccato l’assenza dei tifosi ospiti… senza ultras non c’è derby”. Come Don, può ripetere? Non proprio le parole che ti aspetti di sentire da un prete insomma: “Se saliamo in Serie A? Non scherzare, mi viene un infarto. Sarebbe l’apoteosi”. Il calcio come strumento di evangelizzazione: “Perché i giovani si possono avvicinare alla chiesa anche così, vedendo un prete in curva che canta e urla accanto a loro”.
Italiano o straniero, nella Selecao non c’è differenza. Lo dimostra Don Walter Asto Gomez, della diocesi di Prato. Dal Perù con furore, arrivato in un Italia fresca campione del Mondo: “Ho giocato a calcio fin da piccolo – racconta – uscivamo da scuola, andavamo in strada, facevamo le porte con un paio di pietre e poi tutti dietro al pallone”. Idoli? “Beh, era difficile averne. Vivevo in un paesino a 3000 metri di altitudine e fino a 14 anni non ho avuto la televisione”. Poi l’amore per Pirlo e Iniesta: “Anche perché gioco a centrocampo, stoppo il pallone e lo smisto di qua e di là”. L’arrivo in Italia, le partite una volta a settimana contro i ragazzi del catechismo o i loro genitori: “Perché noi sudamericani il calcio lo abbiamo nel sangue”. Poi la chiamata di Moreno e della Selecao: “Un’esperienza bellissima, che ci permette di conoscerci e di fare amicizie. Di giocare e di mescolare culture diverse. E poi San Siro mette i brividi…”. Un sogno che diventa realtà, dunque. Per arrivarci ci vorranno gol, sudore e anche qualche preghiera. Quella no, non guasta mai.