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La vita del calciatore di categoria: quella linea sottile tra gloria e fallimento

Agata Centasso ci racconta la storia di un calciatore, tra fatiche, illusioni e difficoltà

Questa è la storia di un calciatore. Non un calciatore di Serie A, ma di quel grande mondo che comprende la Serie B, la C e anche la D. “Che lavoro fai?” “Gioco a calcio”. Quando un ragazzo risponde così, scatta subito la risposta: “Ma sarà mica un lavoro quello?” Oppure: “Ma che bella vita!”

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La verità è che non è per nulla cosa semplice. Queste persone fin da bambini vengono mandate fuori casa, a vivere lontano, e solo chi ha molta forza di volontà (o genitori molto lungimiranti e severi) prosegue con gli studi. Alle scuole superiori, accumulare assenze per motivi sportivi è all’ordine del giorno. Per non parlare di come la possano prendere i professori… L’Università? Lasciamo perdere: non è semplice far combaciare le lezioni e gli esami con gli allenamenti e le partite. 

Il calcio è un investimento

Insomma, il calcio è un investimento: si inizia da giovani con la ferma speranza di arrivare. La maggior parte dei genitori tratta il proprio figlio come se lo sport non fosse solo divertimento, ma qualcosa di più serio, mettendogli addosso delle pressioni che a quell’età non dovrebbero esserci

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Intorno ai 16-17 anni, poi, si capisce se le cose stanno andando nel verso giusto dal fatto di essere in primavera in un club importante (e anche da qualche panchina con la prima squadra). Un ragazzino qualunque, abituato a vedere “le partite, quelle vere” alla TV, un giorno si trova a calpestare i campi che da piccolo sognava.

Ma continuiamo la storia del “mio” calciatore. Si trova allo stadio Friuli a Udine e, mentre nel prepartita esamina il terreno, gli si avvicina Pippo Inzaghi, che con tutta la normalità del mondo gli commenta: “Pensavo fosse messo meglio il campo!”. È solo allora che quel ragazzino realizza che quel pomeriggio non giocherà la classica partita del campionato Primavera. No: affronterà il grande Milan di Inzaghi, Seedorf, Kakà, Pirlo nel campionato di Serie A. Per la prima volta, realizza di essere un professionista

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Nei primi anni tutto è molto semplice: pensa a giocare, il resto lo fanno tutto i procuratori. Arrivano anche i primi stipendi importanti, sembra di vivere un sogno: in fondo si fa una cosa che si ama e si viene anche ben pagati per farla. La soddisfazione dei parenti e degli amici, poi, sembra valere anche più di quello stipendio. L’autostima e la fiducia in se stessi vanno alle stelle, si sente quasi un Dio.

Ma quando tutto sembra andare per il meglio, ecco che il futuro non è più nelle sue mani: quel calciatore diventa solo una pedina in un sistema di affari molto più grande. Con il rischio che le trattative vadano a scavalcare gli interessi del giocatore stesso.

Quella sottile linea tra gloria e fallimento

Ipotizziamo poi che la squadra fallisca: si resta a casa. Ed è lì che bisogna accontentarsi di contratti minori, annuali, che portano a dover dimostrare il massimo ogni anno per poter sperare nell’ingaggio per la stagione successiva. Per non parlare degli infortuni: riuscite a immaginare di farvi male a lavoro e venire svalutati o quasi licenziati? Ogni anno diventa una lotta per la sopravvivenza, un galleggiare senza certezze, distante da casa. Giugno e luglio sono mesi di ansia e stress, dove il calciomercato deciderà il tuo futuro.   

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Una volta trovata la squadra, il “mio” giocatore spera che le cose vadano bene, che l’allenatore lo stimi e lo faccia giocare. Altrimenti rischia di finire in panchina, non giocare, magari essere pure contestato. E intanto gli anni passano e inizia a sentirsi “umano”, con tutte le sue fragilità. Ripensa alla carriera, con più di duecento partite nei professionisti, l’aver condiviso lo spogliatoio con i grandi del calcio, l’aver sfidato idoli come Del Piero.

Tutto questo ora sembra solo un ricordo lontano, e il calciatore si domanda dove ha sbagliato, se le cose potevano andare diversamente. Pensa a quello che poteva essere e non è stato. Quella linea sottile tra gloria e fallimento. Nel calcio non basta il talento: c’è molto di più. E quando arriva la fine, bisogna accettare che un capitolo si sta chiudendo. Ora, a 33 anni, deve pensare a che cosa fare del proprio futuro, ed è questa la cosa più difficile.   

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Questa è la storia di un calciatore, di una persona a me molto cara, una che come tante vive e ha vissuto quel mondo. E io vorrei dirgli che, nonostante tutto, il meglio deve ancora venire. Che per ogni fine ci sarà sempre un nuovo inizio. Ma sono sicura che tutto questo lui lo sappia già…