Intrecci, destino, mercato: 10 storie sulla Chapecoense
“Se morissi domani, morirei felice“. Caio Junior era l’allenatore della Chapecoense. Dopo il ritorno della semifinale della Copa Sudamericana che sognava di conquistare, contro il San Lorenzo, raccontò del suo orgoglio per la storica campagna della sua squadra. “Tutto quello che desideravo dalla vita l’ho ottenuto“. Suo figlio Matheus Saroli era in viaggio con la squadra. Ma al primo scalo, a San Paolo, si è accorto d’aver dimenticato il passaporto e di non poter espatriare. Per questo si è salvato.
Guilherme e Matheus Biteco, che in realtà si chiamerebbero Bitencourt, ma che nessuno in Brasile sa pronunciare alla francese, erano fratelli cresciuti in ristrettezze economiche, con genitori che si davano da fare come potevano per riscattarli dalla povertà. Avevano 7 e 6 anni quando il loro passatempo preferito, la loro passione, o futebol, divenne il loro lavoro. Giocavano a calcetto nella zona nord di Porto Alegre quando un osservatore del Grêmio li scoprì e chiese al padre di cominciare a mandarli ad allenarsi con le giovanili. Presto la famiglia non poté più permettersi di pagare i biglietti autobus andata e ritorno. Matheus disse al padre di star tranquillo, avrebbe fatto in modo di non pesare sul bilancio della casa. E fu così. Quando Matheus conobbe il figlio di Assis, nipote di Ronaldinho con cui si trovò insieme al Grêmio, divenne suo grande amico. E Assis ricompensò la famiglia Biteco con molti regali per i ragazzini. Maglie, palloni, parastinchi. Tutto ciò che sarebbe servito per rendere i fratelli calciatori professionisti. Quattro mesi fa Matheus era diventato papà. Domenica Guilherme sarebbe andato a trovarlo per la prima volta per conoscere il nipotino. E per firmare con la Chapecoense in vista della prossima stagione. Invece Guilherme suo fratello non lo vedrà più.
Cléber Santana, di Recife, era diventato calciatore grazie allo zio Marlindo, che ebbe una breve carriera al Santa Cruz. Ma lui giocò nello Sport, dove l’allenatore Mauro Fernandes, intuendone il talento, decise di dargli la fascia di capitano e responsabilizzarlo nonostante la sua naturale timidezza e la poca attitudine alla leadership. Arrivò fino al calcio spagnolo, Atletico Madrid e Mallorca tra le altre, con un super gol al Real nel curriculum. Ma insieme alla compagna della vita Rosângela, conosciuta quando lei aveva appena undici anni, decise di tornare in Brasile dopo un episodio di razzismo di alcuni bambini che rifiutarono di giocare con suo figlio perché aveva la pelle scura. Non diventò mai un leader carismatico e rumoroso, ma nello spogliatoio della Chapecoense, insieme a Kempes e Dener, formava la Turma do pagode, la “banda” che gestiva l’accompagnamento musicale e l’allegria conviviale prima e dopo le partite.
Bruno Rangel era la leggenda del club. Il recordman storico per gol segnati. Quando trascinò con le sue reti la Chapecoense alla promozione in Série A, guadagnava meno di 30mila euro l’anno. Lo stipendio medio di un ragazzino delle giovanili del Palmeiras. Per questo non dubitò a lasciare il club per un periodo per spostarsi nei Paesi arabi a fare un po’ di cassa. Ma era tornato da eroe. E da eroe, con due gol nella leggendaria Sudamericana 2016, se n’è andato per sempre.
Ananias, l’autore dell’indimenticabile gol al San Lorenzo nella semifinale d’andata di Copa Sudamericana che qualcuno paragonava a Iniesta chiamandolo Ananiesta, era entrato nella storia del calcio brasiliano quando nel 2014, con la maglia dello Sport, aveva segnato un gol alla sua ex squadra, il Palmeiras. Era il giorno dell’inaugurazione del nuovo stadio della squadra paulista, e la grande festa verde fu cancellata da Ananias e dai suoi compagni. I rivali del Palmeiras cominciarono così a chiamare il nuovo impianto Ananias Parque, per ricordare in eterno l’umiliazione della sconfitta al debutto su quel prato della squadra che proprio contro la Chapecoense e il suo vecchio carnefice nell’ultimo weekend ha vinto il Brasileirão.
Tiaguinho voleva segnare in finale di Copa Sudamericana per un motivo in più. Ripetere quel festeggiamento che aveva già postato sui social ma che doveva esibire anche in campo: simulare il pancione e magari un ciuccio, per salutare la compagna incinta. Da circa una settimana aveva saputo che sarebbe diventato papà.
Dener papà lo era diventato due anni fa, ma finalmente si era animato a sposare la sua compagna, che stava scegliendo il suo abito nuziale. Era il momento migliore per lui, a 25 anni: aveva appena rinnovato il suo contratto con la Chapecoense, con cui aveva superato le 100 partite in carriera giocandone oltre il 90% nel 2016, mentre Tite lo teneva d’occhio per la corsia di sinistra della Seleção e Botafogo e São Paulo cercavano di convincerlo a scegliere l’una o l’altra squadra.
Ad aspettare William Thiego a Medellín, se mai fosse arrivato, non c’era solo la finale di Copa Sudamericana contro l’Atlético Nacional, ma anche un dirigente del Santos. La squadra di Pelé e Neymar aveva mandato un dirigente in Colombia a trattare gli acquisti di Berrío e Guerra dall’Atlético Nacional, ma soprattutto a far firmare un precontratto al difensore della Chapecoense, elemento indispensabile in ottica futura dopo le perdite di Gustavo Henrique e Luiz Felipe per lunghi infortuni.
Marcelo aveva debuttato tardi, a 22 anni, con il Flamengo. La sua vita non era mai stata facile. A 19 anni la dirigenza del Macaé non mantenne alcune promesse che gli aveva fatto, lasciandolo per strada, da solo, in balia della fame. Il padre cominciò a chiedere in giro denaro agli amici per poter permettere al figlio di continuare a sopravvivere, ma lui non poteva accettare questa umiliazione e lasciò il calcio per andare a lavorare con lo zio. Faceva il falegname. Non era felice, però, senza il pallone. Il padre Paulo trovò il modo di comprargli nuove scarpe da calcio, anche se molto economiche. E facendosi prestare una macchina lo accompagnò a un nuovo provino con il Volta Redonda, a un’età piuttosto avanzata per mettersi in vetrina con questi mezzi. Quel provino Marcelo lo passò, ma era ancora tanta la disillusione dopo l’esperienza con il Macaé. Paulo scoppiò in lacrime davanti a lui dicendogli che il cielo lo aveva messo su quel cammino, e che avrebbe dovuto accettare quella chance. Marcelo non poteva rifiutare. È arrivato a giocarsi una finale internazionale. Che il destino non gli ha permesso di provare a vincere.
Rosario Triolo
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