Un australiano a Cittadella, il mondo di Venturato: “Moncini mi ricorda Higuain”
La prima domanda la fa lui. “Ci diamo del ‘lei’ o passiamo al ‘tu’?”, chiede l’intervistato, Roberto Venturato, attento e preciso anche nella scelta del contesto comunicativo. Il discorso prende una piega colloquiale e parliamo subito di calcio per entrare in sintonia. “Stiamo lottando per qualcosa di davvero importante”, ci dice l’allenatore del Cittadella, attualmente in piena zona playoff al settimo posto in classifica.
Venturato pesa le parole – anche le virgole! – e spiega con lucidità il momento dei veneti. “A inizio anno speri sempre di raggiungere certi obiettivi, ci speri, ma non è mai facile concretizzare le intenzioni. Noi siamo riusciti a ricostruire la voglia di provarci e questo per me è davvero molto gratificante”. Via Kouame e Varnier, dentro tanti altri ragazzi giovani e di valore, quasi a costo zero. Anche grazie allo splendido lavoro del direttore sportivo Stefano Marchetti. “Dove migliorare? In questo finale di stagione dobbiamo concretizzare di più”.
Nonostante, da gennaio, ci sia un Gabriele Moncini in più in attacco, arrivato in prestito secco dalla SPAL: 11 partite e 9 gol fatti per ‘il Moncio'. Wow. “Chi mi ricorda? Higuain! Vive in area di rigore come il ‘Pipita’, come caratteristiche si assomigliano”. Il paragone è importante. E lo stile di gioco di Venturato è ideale per un ‘9’ che sa segnare. “Il mio modello? Ti dico l’Olanda di Johan Cruijff. Amo le squadre che giocano insieme, che difendono e attaccano in 11. In Italia Sacchi e Sarri sono riusciti a calarsi alla perfezione in quella mentalità”.
Dalla tattica al modo di approcciarsi al mondo del calcio, Venturato è differente dal resto. “Credo di avere un imprinting anglosassone”. E la carta d’identità canta: nato in Australia. “Si! Ho vissuto lì per i primi 10 anni della mia vita. Quando sono rientrato in Italia, in provincia di Treviso, ho fatto fatica ad adattarmi. Cosa cambia a livello sportivo? L’educazione, la sportività, la capacità di vivere lo sport qual è, senza tensioni, polemiche o pressioni giornalistiche”. In senso pratico le difficoltà sono state altre. “Passare da Sydney a un paesino del Trevigiano è stato traumatico, assolutamente si. Il primo ostacolo è banale ma chiave: imparare l’italiano. Io studiavo e parlavo inglese – lo sa benissimo e lo parla coi ragazzi stranieri che ha in squadra – poi a 10 anni ho iniziato con l’italiano. Il secondo riguardava il modo di vivere. L’Australia ha 200 anni di storia e un’apertura alla quotidianità differente: quando mi sono trasferito, nel ’73-74’, l’Italia stava attraversando un periodo storico particolare tra Anni di Piombo e Brigate Rosse. Di lavoro ce n’era molto poco”.
Roberto giocava a pallone, mezz’ala. A 14 anni lo voleva la Juventus. “Ho detto no per motivi familiari. Era mancata mia sorella, appena nata”. A 19 un altro episodio significativo: di rientro dalla firma del il contratto col Pergocrema è coinvolto in un brutto incidente. Ha rischiato la vita. Si rompe l’anca ed è costretto a mollare il calcio per due anni. Diventerà presto allenatore. Una carriera piena di colpi di scena: all’inizio della stagione 2002/2003 passa dai juniores del Pizzighettone alla Prima subentrando a Marino Bracchi, colpito da problemi cardiaci (e salvato in campo), e porta la squadra in C2.
Diventa il vice di Mondonico alla Cremonese e nella stagione 2009/2010 perde la finale playoff per la promozione in B contro il Varese. Poi? Montagne russe. “Sono rimasto due anni senza una panchina. E’ stato molto difficile, l’ho vissuta male. Non lo capivo, non l’ho mai digerito. Mi sono sempre tenuto attivo sui campi, informandomi e guardando tante partite. Poi ho allenato in D al Pergocrema e ho vinto un altro campionato. Volevo dimostrare che avevo delle capacità”, ci racconta Roberto con tono pacato e riflessivo.
E quasi sei anni dopo Cremona tornerà nel mondo del professionismo, a Cittadella. “Nel futuro? Sono ambizioso. Se ci fosse la possibilità di provare ad allenare in Serie A ci penserei. Ma la mia occasione, adesso, si chiama Cittadella. Ho grande rispetto per il direttore Marchetti. Arrivare in A con questo club sarebbe straordinario”. Volare sì, ma non per più di un secondo. “Manteniamo i piedi per terra”.
Concreto, Venturato. Un uomo d’altri tempi che non sa cosa siano i social – “LinkedIn però ce l’ho! Lo uso, trovo ‘personaggi’ che mi incuriosiscono” – ma pronto a mettersi al passo, sempre: “Vorrei saperli usare bene”. Calmo, ‘tranquillone’, aperto a tanti altri interessi extra calcio e propenso al dialogo, sempre o quasi. “Succede di arrabbiarsi, di alzare la voce. Capita di perdere il controllo. L’importante è mettere le cose in chiaro e trovare le soluzioni”. Anche a inizio intervista. Anche quando si deve scegliere tra ‘lei’ o ‘tu’.