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“In un calciatore cerco la scintilla”. Così scoprì Coutinho, Pandev e Biabiany. Addio Casiraghi, cacciatore di magia sui campi di periferia

In un campetto, da qualche parte nel mondo, un bambino sta giocando. Insegue il pallone e sogna la gloria. Forse non lo sa, ma da qualche ora la sua porta per diventare calciatore si è ristretta. Quel ragazzino non potrà più essere segnalato da Pierluigi Casiraghi, lo scopritore dei campioni.

Omonimo dell’ex attaccante di Lazio e Juventus, cognome da principe e una sola missione: aiutare i rampolli del calcio a diventare re.

Ha passato la vita a dare la caccia ai nuovi talenti. Per decenni, ha guardato partite che nessuno vedeva. Ha consumato le suole e scritto migliaia di relazioni. Grazie a lui, tanti bambini di ieri sono diventati idoli di quelli di oggi: Coutinho, Balotelli, Martins, Pandev, Biabiany. Persino Pogba. Lo aveva scoperto prima di tutti a un torneo in Val de Marne, quando giocava al Le Havre. Aveva 16 anni e lasciava appena intravedere le doti che poco dopo sarebbero state sotto gli occhi di tutti. Lui le aveva viste prima degli altri. Non riuscire a portarlo all’Inter, dove lavorava dal 2000, fu forse il suo rimpianto più grande.

Cercava la scintilla, si lasciava guidare dall’emozione. La prima impressione era la più importante per lui”. A ricordarlo a GianlucadiMarzio.com è Gian Paolo Manighetti, osservatore dell’Inter e compagno di viaggio di “Casi” per dieci anni. Lo raggiungiamo al torneo di Viareggio, una manifestazione a cui Pierluigi era devoto. I nerazzurri, dopo un minuto di silenzio in suo onore, si giocano la finale contro la Fiorentina. Quei ragazzi li conosceva tutti. “È stato un pioniere di questo lavoro, uno dei primi ad andare all’estero a scovare talenti. Nelle migliaia di chilometri fatti insieme e nelle centinaia di partite osservate fianco a fianco, ho imparato tutto quello che so di questo lavoro”.

In quei viaggi, fra incontri, sigarette e buona cucina, Pierluigi apriva sempre il cassetto dei ricordi.

La scoperta di Biabiany in una banlieu parigina o quella casuale di Pandev in un torneo in Ungheria. Oppure quelle più recenti, come Emmers “era piccolo, non c’erano le distinte, andavamo a chiedere i nomi ai genitori” o come Bessa, Pierluigi era in tribuna con un collega dell’Ajax. La mamma del ragazzo si avvicinò scettica, poche ore dopo Daniel diventò di fatto un calciatore nerazzurro”. Emmers scoperto in Austria, Bessa in Brasile. Perché ovunque può nascere un fiore.

Andava sempre nei posti più dimenticati, per dare una speranza a chi era nato lontano dai grandi palcoscenici. Troppo facile segnalare quelli costosi dei grandi club. I calciatori che scopriva, quelli arrivati e quelli spariti, rimanevano legati a lui. Memoria ed empatia erano le sue qualità più lampanti, fra le mille che aveva”.

Cacciatore di affari e di emozioni. Coccolava i suoi calciatori, parlando nella loro lingua. Un poliglotta, grazie soprattutto al suo precedente lavoro. Perché prima di andare a caccia di fenomeni, Pierluigi da Besana Brianza è stato rappresentante di un’azienda che vendeva macchinari per l’olio. “Prima di Google Maps e dei navigatori, lui sapeva raggiungere qualsiasi luogo usando la cartina o abbassando il finestrino dell’auto. Polo, jeans e occhiali da sole: la sua divisa ufficiale. Per me era un’icona. Spendeva poche parole, mai nessuna a caso”.

L’Inter lo ha ricordato in un toccante comunicato, definendolo “un faro ispiratore, un esempio e un’inesauribile fonte d’amore per il calcio”. Quasi vent’anni fa lo aveva portato via dalla sua amata Pro Sesto, strappandolo alla concorrenza del Milan. Il suo amico Ariedo Braida lo avrebbe voluto come osservatore, ma i nerazzurri arrivarono prima. “Pierluigi si legò tantissimo alla famiglia Moratti. Con il Presidente c’era una stima reciproca enorme”. Anche perché prima di scoprire calciatori, “Casi” gli segnalò un dirigente che avrebbe fatto strada. “A fine anni ‘90, disse all’Inter di prendere Piero Ausilio, all’epoca segretario del settore giovanile della Pro Sesto. Un paio d’anni dopo si ritrovarono”. Oggi il direttore sportivo nerazzurro lo ha ricordato sul sito ufficiale del club, definendolo “un padre, il mio padre calcistico e non solo”.

A Viareggio, l’Inter ha vinto. Porta il lutto al braccio e alza il trofeo verso di lui.

Pierluigi dall’alto osserva tutto. Come sempre, semplicemente da un nuovo punto di vista. Forse sorride. O forse ha già girato lo sguardo sul prossimo campione inconsapevole.