Il racconto di Giovinco, dalle difficoltà dell’infanzia alla sua esperienza in MLS: “Voglio vincere a Toronto”
Con una lunghissima lettera al portale The Players’ Tribune, Sebastian Giovinco ha caricato il suo Toronto, primo nella conference orientale, in vista dei playoff che cominceranno tra settimane. Di seguito, se ne riporta la traduzione integrale.
“Sono a Toronto da ormai quasi tre anni e ci sono ancora due cose che non ho visto. Una di queste sono le cascate del Niagara. E ci andrò, finalmente. Ma prima c’è qualcos’altro che voglio vedere. Che ho bisogno di vedere: il Toronto FC che vince la MLS. Ci siamo andati abbastanza vicini lo scorso anno, ma andarci vicino non è la stessa cosa. Sono italiano e ho giocato lì per gran parte della mia carriera. In Italia diciamo ‘è come andare a Roma, senza vedere il Papa’. Ora, non voglio di certo accostare l’MLS con una visita in Vaticano, però… Non sono venuto qui per non vedere questa squadra vincere un titolo.
Ricordo il campo su cui ho giocato a Torino quando ero bambino. Non c’era erba, ma solo qualche sporca linea di gesso, da spolverarsi ogni volta che ci si finiva sopra. Il terreno era duro, quindi se si cadeva c’erano buone possibilità di rompersi qualche osso. Ma quel campo era tutto ciò che avevo: non c’erano centri commerciali o grandi cinema nella mia città. Niente. Potevi giocare a calcio o… giocare a calcio. Su quel terreno terribile. Tranne all’inizio, quando non volevo giocare a calcio. Non ero come gli altri bambini italiani che sognavano di andare in Serie A. Non la guardavo molto nemmeno in tv. La maggior parte del tempo lo trascorrevo con mamma, che lavorava nel piccolo bar di mio zio. Alle cui spalle c’era il campo. Passavo molto tempo con i miei amici e qualche volta guardavo i ragazzi giocare a calcio, qualche squadra che disputava campionati regionali. Un giorno la squadra di casa stava giocando una partita sette contro sette e mancava un giocatore. Avevo solo sei o sette anni e i ragazzi della squadra erano di qualche annno più grandi. Immaginavo che fossero disperati perché mi chiesero di unirmi a loro, ed ero l’unico nei paraggi. Da quel momento capii: le cose sarebbero state diverse per me. Giocare a calcio mi rendeva felice, era divertente e mi aiutava a fare nuove amicizie. Così tornai a casa e raccontai a mio padre di quel giorno, di quella squadra e del fatto che volessi continuare a giocarci. Il giorno dopo tornai, e anche quello successivo. Cominciai come centrocampista, mi piaceva fare assist. Ma poi realizzai che la cosa che mi faceva stare meglio di un assist era segnare. Il gol era la cosa più importante, la strada per vincere.
La scuola divenne un di più. Passavo tutto il giorno ad allenarmi con questa squadra, San Giorgio Azzurri. Potevo giocare ovunque potevo: campi, parchi in città, anche in casa con mio fratello minore Giuseppe. Era un appartamente piccolo per tutti e quattro, c’era una sola stanza da letto in cui c’erano i miei. Io e Giuseppe dormivamo in salotto e durante il giorno giocavamo tirando contro il muro. Mamma impazziva. “Seba, hai rotto un’altra cornice!”. Non avevamo molto. Vivevamo a 15 miglia dal Delle Alpi, ma non avevo mai avuto i biglietti per andare a vedere la Juventus. Figuriamoci per comprare i completini. Ricordo che papà, che lavorava nelle industrie siderurgiche, risparmiò soldi per un anno intero per potermi comprare le mie prime scarpette. Ma a me non interessava della scarpa, della maglia: l’unica cosa che m’importava era essere in campo. Dopo un anno più o meno, uno scout della Juventus mi invitò ad unirmi al settore giovanile. Sembra assurdo, ma successe proprio così velocemente. Un giorno giochi per una piccola squadra locale, quello dopo ti prende un grande club. Almeno a me successe così: un uomo si presenta a me e parla con mio padre, il giorno dopo facevo parte del vivaio della Juventus. Poiché vivevo vicino al centro sportivo, continuai a vivere con i miei genitori. Ogni mattina papà mi accompagnava con la sua Renault 5. Poi tornava a casa e accompagnava mamma a lavoro. Quindi la andava a riprendere la sera, affinché potesse prepararmi da mangiare mentre lui mi veniva a prendere all’allenamento. Posso giurare che fece tanti di quei chilometri, che doveva cambiare Renault ogni due anni.
A papà non piaceva il calcio. Tifava Milan ma non l’aveva mai visto giocare nemmeno in tv. Quindi lui era felice che io giocassi nella Juve finché lo ero io. E per un periodo non fui contento. Avevo 15-16 anni e non giocavo quasi mai. Così la maggior parte delle volte che tornavamo a casa mi mettevo a piangere. Un giorno fermò la macchina e disse: ‘Seba, domani non ti ci riporto’. Lo guardai, asciugandomi le lacrime. ‘Perché?’. ‘Perché non ti sto portando qui per piangere’. Ci pensai un attimo, mi dissi che non dovevo piangere ma lavorare duramente. E vincere. Che era tutto ciò che si aspettava il club. Niente lacrime, niente di niente. C’è questa mentalità alla Juve, molto semplice: vincere. Ti insegnano il rispetto e a vincere con rispetto. Ma alla fine del giorno, conta solo una cosa: vincere. Questo modo di pensare fu impostato in me fin dal primo giorno. Soltanto vincere. Quando avevo 17 anni fui portato nell’ufficio dell’allenatore per firmare il mio primo contratto ufficiale con la Juventus. Ero minorenne, quindi mio padre venne con me. E io portai con me mio padre per fargli firmare un’altra cosa, un contratto per un nuovo appartamento. E’ stata la prima cosa che ho comprato per la mia famiglia, dove ognuno aveva una stanza.
Ricordo la prima volta che sono entrato in campo allo stadio. Non era nulla di simile a quel campo con le linee sporche dietro casa. Stavo giocando vicino a Del Piero, facendo assist a Trezeguet. Ero orgoglioso che eravamo tornati in Serie A alla prima stagione. Non penso che avrei avuto l’opportunità di giocare così tanto se fossimo stati in Serie B. Ma la promozione non era qualcosa di cui si parlava molto nello spogliatoio – o tantomeno che i più giovani erano stati parte di quella risalita. Come ho detto, c’è soltanto una cosa che conta alla Juventus, e non interessa come. E per me, come sempre, la cosa più importante era essere in campo. Ma pochi anni dopo, mi accorsi che non avrei avuto uno spazio maggiore in bianconero. Sono stato un paio di volte in prestito e con il mio contratto in scadenza con la Juve, ho cominciato a pensare di trasferirmi in MLS. Il Toronto mi ha cercato e la conversazione è stata molto veloce. Da quel momento avevo soltanto una squadra in testa, il Toronto. In 2-3 giorni avevamo trovato già un accordo.
La prima volta che sono arrivato a Toronto è stato nel febbraio 2015. E quando l’aereo atterrò, la cosa che ricordo meglio di quel giorno era il gran freddo. Oltre alle centinaia di tifosi accorsi per me in aeroporto. Ho imparato due cose da allora: le giacche di Canada Goose mi tengono al caldo (il club me ne diede una quando arrivai) e che i tifosi del Toronto ci avrebbero sempre guardato le spalle. Non penso che avrei immaginato quanto sarebbe stata bella la città. E’ stata una strana sensazione, ho giocato per altri club in altre città e non è facile trasferire la propria vita. Non è facile arrivare in un posto nuovo ed essere subito accettati. Ma a Toronto ho trovato una casa praticamente subito. La cosa più importante, inoltre, è il fatto che non stiamo facendo qualcosa che qualcosa si aspettava da noi. Prima che arrivassi qui, pensavo che questa poteva essere una squadra in grado di fare qualcosa di speciale, non saprei dire perché. Quando ho conosciuto gli altri ragazzi, mi è parso di vedere in tutti la stessa mentalità, lo stesso obiettivo. Tutti volevano fare una cosa: vincere. E l’abbiamo fatto. Nel 2015, la mia prima stagione, abbiamo fatto i playoff per la prima volta nella storia del club. Ma potevamo fare di più. Penso che quando li abbiamo aritmeticamente raggiunti, abbiamo festeggiato troppo e abbiamo perso le ultime due partite di campionato. E siamo stati buttati fuori al primo turno dal Montreal. Vedete, penso che c’era quest’altra parte del modo di ragionare della Juventus, che dovevamo imparare a Toronto. Si vince oggi, si festeggia oggi: poi si guarda avanti. Quella sconfitta col Montreal fu molto emotiva per me. Volevo provare qualcosa alla squadra, alla città. Volevo mostrare perché ero lì e cosa potevamo fare. Ma tutti abbiamo imparato da quella partita. E’ stato come l’inizio di un viaggio per la squadra. Pensavamo che le cose si fossero messe a posto nel 2016: avevamo battuto il Montreal ai playoff ed eravamo in finale.
Quella finale. Cosa possiamo realmente dire? Se devo essere onesto, avevo questa sensazione un paio di giorni prima. Non so, c’era qualcosa che inconsciamente mi diceva che le cose non sarebbero andate a nostro favore. Lo dissi a qualche familiare e amico. E provi a toglierti questa sensazione il giorno della partita. Abbiamo avuto la nostra occasione, ma non abbiamo finito. Io non ho finito. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se non fossi stato sostituito per crampi. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se avessi fatto questa o quella cosa. Ma alla fine non cambia nulla, che si sia vinto o perso bisogna guardare avanti. Abbiamo fatto piccoli cambiamenti e c’è qualcosa che dobbiamo fare. E’ l’ultimo pezzo del puzzle, e penso che ci siamo molto vicini. Uno di questi pezzi è Victor Vazquez, che si è unito a noi quest’anno. Può davvero darci una mano a vincere. E’ il miglior assistman del campionato, quando è in campo siamo una squadra diversa. Ed eravamo già un ottimo gruppo, dovuto a due persone. Michael Bradley, che è il nostro leader in campo e nello spogliatoio. E dopo tutto il tempo che ha trascorso giocando a Roma, il suo italiano è anche buono (forse anche meglio del mio!). Cosa più importante, è che uno che dà consigli e ci tiene insieme prima di una partita. E poi c’è Jozy. E’ buffo, il primo anno in MLS nessuno conosceva il mio gioco, quindi segnavo tutti questi gol quando mi lasciavano spazio in area. Il secondo anno, mi sa che c’era più attenzione. Ero più marcato. Ma questo permetteva a Jozy di avere più spazio da occupare e l’ha fatto. Non so, semplicemente sentivo quest’intesa speciale con lui in campo. Non parliamo molto prima di una partita, andiamo in campo e facciamo ciò che ognuno deve fare.
In realtà non credo di parlare molto con nessuno. Forse è una questione di linguaggio. Ma penso anche che ci sono i tipi che parlano in spogliatoio, così come ci sono quelli che vanno in campo e fanno parlare il campo. Del Piero era molto così. E quando io non parlo, ascolto. Ascolto i nostri tifosi. Sarò sincero, ancora non capisco molti dei loro cori (ma sto imparando). Ma so quando cantano il mio nome. Lo sento. Chiamate la nostra stagione come vi pare: rimonta, redenzione. Siamo stati primi tutto l’anno e non siamo soddisfatti. Dopo ogni vittoria, abbiamo smesso di festeggiare e andiamo avanti. E lo faremo finché non porteremo un titolo a Toronto. E poi dopo che ho visto che ce ne andiamo con la coppa, saprò cosa voglio vedere in futuro. Anche perché ho sentito che il lato canadese delle cascate del Niagara è molto più bello”.