‘Guagliò, io so chi sei tu!’. La maglia di Cassano e un pomeriggio (post Mondiali) con Henry, Lupoli racconta: “L’Arsenal, Wenger e le lacrime di Highbury…”
Veni, vidi, vici. Termini aulici, consequenziali, a designare un’impresa, quella di Cesare. Poi ce n’è un’altra, sui generis, il cui protagonista è Arturo Lupoli. Veni, vidi. E, quindi, vici. Ma non nell’accezione più comune che a siffatto termine si può assegnare, “ho vinto perché ho avuto la fortuna di viaggiare molto, di scoprire cose nuove. Modi di fare e di vivere diversi dai nostri. A 16 anni mi sono ritrovato lontano da casa, in Inghilterra. Ero in una famiglia irlandese che cenava alle cinque e mezzo di pomeriggio. Menù fisso con uova e salsicce, accompagnate da un contorno di funghi e pomodori come li fanno loro. E la signora che tutte le sere suonava un campanaccio al piano di sotto alle cinque e mezzo in punto per invitare tutti a scendere a cena…”. I ricordi dell’esperienza: belli, rari, originali, nostalgici. Al cospetto di essi qualsiasi avvenimento calcistico potrebbe passare in secondo piano. “Anche se quando giochi in squadra con Henry, Pires, Campbell e Ljungberg è davvero difficile metterli da parte. Ma, comunque, dobbiamo viaggiare, scoprire, conoscere. A me si è aperto un mondo”. Che, poi, visto con gli occhi di un sedicenne dev’essere qualcosa di ancor più affascinante…
Arturo Lupoli. Primi anni duemila, il Parma, gli Allievi Nazionali e la nebbia a scandire il ritmo delle giornate. Tutte uguali, tutte diverse. “Ogni giorno c’era un qualcosa da scoprire. Quell’anno lì abbiamo vinto il campionato, coppia d’attacco Lupoli-Giuseppe Rossi. Poi due giorni prima dell’ultima partita di campionato del Parma dei grandi mi arriva una chiamata a casa…”. Squilla il telefono, è la società. Un mix di speranza e agitazione: la solita adrenalina che prelude un qualcosa di davvero importante. Di quelle cose che ti senti che stanno per accadere e infatti… ‘Arturo non firmare con l’Arsenal perché il Parma vuole provare a tenerti. Dopodomani vieni con la prima squadra e fai l’esordio in Serie A’. Una notte stile senecano, Lupoli non riesce a prendere sonno. O l’una o l’altra. La cosa brutta degli aut aut è che qualunque cosa tu scelga, ne lasci sicuramente indietro un’altra (altrimenti non esisterebbe nemmeno la necessità di scelta). L’importante è continuare dritti, passare appena scatta il verde e guardare avanti: non fermarsi, né avere rimpianti.
E allora addio nebbia, addio esordio, ecco la pioggerellina apparentemente innocua ma estremamente infima di Londra. L’Arsenal, Wenger, una scelta di vita. 16 anni. “A Wenger sarò riconoscente per il resto della mia vita. Mi ha fatto esordire in Fa Cup, che quell’anno abbiamo pure vinto. Poi in Premier e mi ha anche portato in panchina al Bernabeu contro il Real Madrid, nel quale giocava Cassano”. Si riconoscono, si abbracciano nel pre partita, in nome di un senso di solidarietà – quello italico – davvero difficile da trovare in giro per il mondo… ‘Guagliò io so chi sei tu, sto vedendo quello che stai facendo con l’Arsenal’. Sorpreso Lupoli, non nella risposta, già ampiamente premeditata… ‘Grazie Antò mi fa molto piacere. Ascolta ma…’. E le parole che faticano ad uscire, vuoi per l’emozione vuoi per un senso di apprezzamento importante… ‘Ma?’ ‘Sarebbe possibile avere la tua maglia a fine partita?’. Cassano lo guarda, sorride. ‘Certo! Tanto vedrai che te la darò bella pulita, figurati se mi fa entrare…’.
Passa veloce il tempo, scorre incessante. E più noi proviamo ad aggrapparci ad esso, più lui scappa. Un Achille e la tartaruga in moto perpetuo. Anno 2006, seconda tappa. “Ho vissuto l’emozione più bella della mia vita, Highbury, 40.000 persone con le lacrime agli occhi e il countdown sopra il risultato a scandire gli ultimi secondi di vita di quello stadio. Vinciamo 4-2 contro il Wigan, tripletta di Henry che alla fine bacia i piedi del tempio. La fine di un’era per l’Arsenal. Io in quello stadio ci ho giocato due partite e ho fatto tre gol. Ricordo unico, davvero”. Ma il 2006 è anche l’anno dei Mondiali, non dev’esser stato facile consolare Henry… “Al rientro dalle vacanze post Mondiali si presenta al campo e tutti lo prendevano un po’ in giro. Lui arriva dritto da me… ‘Io con gli italiani non ci parlo più!’ Poi mi ha abbracciato scherzosamente e siamo stati un pomeriggio intero a parlare della finale”.
Finché dura sembra tutto eterno. Provi a pensare a quando possa arrivare la fine, ma la vedi lontana. Non fa paura. Inquieta sì, perché sai che tanto prima o poi arriva. Eccola, puntuale. Addio Inghilterra, rieccoci Italia. Firenze. Una sfida, un’incognita, una certezza: “Che alla lunga quell’approccio british al calcio e alla vita mi sarebbe molto mancato. E infatti – racconta Lupoli ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – dopo pochi mesi ho chiesto se sarebbe stato possibile tornare in Inghilterra. Io ad appena vent’anni avevo bisogno soltanto di giocare, quelli erano gli anni in cui la Fiorentina era fortissima. Difficile per me trovare spazio. Avevo davanti uno come Vieri… Si presentò al ritiro che pesava 100 chili. Tutti in giro dicevano che fosse finito e invece. Fece gol importantissimi e due settimane dopo, alla fine del ritiro, già ne aveva persi dodici di chili”.
Tante avventure, Marco Polo. Esploratore, curioso, un po’ nostalgico. Il che non significa aver rimpianti, ma apprezzare semplicemente ciò che è stato e riesaminarlo dieci anni dopo con un altro spirito. “Di rimpianto ne ho uno, il Pisa. Sono andato lì perché mi avevano voluto a tutti i costi. E alla fine ho giocato quattro partite, sono stato ceduto in prestito e poi messo anche fuori lista. Ora guardo al presente, da un mese sono qui al Sudtirol e mi trovo benissimo. Si vive bene e l’approccio al calcio è molto british, mi piace molto”. Lo ripete due volte, convinto. E tanto per rifarsi ad un caro e saggio proverbio indiano: Viaggiando alla scoperta dei paesi troverai il continente in te stesso.