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Gli scherzi a Oronzo Pugliese, gli inseguimenti nelle discoteche, la libertà. Addio a Bruno Pace, il Gaber del calcio

I capelli al vento. L’estro, gli scherzi ai compagni di squadra e i blitz notturni ai suoi calciatori. Libertino da calciatore, “liberticida” da allenatore. Tra virgolette, perché Bruno Pace non era il tipo che prendeva la vita troppo sul serio. Innamorato pazzo del calcio e dell’Abruzzo, soprattutto della sua Pescara, città che lo ha visto nascere 74 anni fa e morire poche ore fa all’ospedale Spirito Santo.

Avrebbe sorriso se gli avessero detto che sarebbe morto in un luogo chiamato così. Perché ha vissuto sempre senza risparmiarsi. Più diavolo che acqua santa, più incendiario che pompiere, sincero e vivace, estroverso e ironico.

Sguardo da Gian Burrasca e zazzera alla Gaber, anticonformista vero, ha raggiunto la maturità calcistica a Bologna, a cavallo fra anni ’60 e ‘70. Lo chiamavano Scarpantibus, per celebrarne l’indole anarchica e il cuore ribelle. Anni ruggenti: Gaber cantava “Barbera e Champagne”, Bruno viveva di corsa, fra centrocampo e locali notturni.

Inseguito dai difensori e da Oronzo Pugliese, l’allenatore che ha cercato di frenarne l’ardore goliardico, spesso con risultati comici. Una sera in un cinema di Bologna, Pace si girò e vide il mister. Notò che una persona con la sua stessa capigliatura stava fumando un sigaro qualche fila più avanti. Lo scherzo era apparecchiato. Bulgarelli, suo inseparabile compagno, andò da Pugliese. “Mister, Pace sta fumando, forse è il caso di dirgli due parole…”. L’uomo di Turi non se lo fece ripetere. Andò dritto alle spalle del fumatore e mollò uno scapaccione. Il ragazzo ignaro reagì. “Oddio, mi scusi, credevo che fosse Pece”. Proprio così, Pece. Alla pugliese, maiuscolo o minuscolo decidetelo voi.

Questo era il ragazzo di Pescara, nato sui campetti e approdato all’agonismo tardissimo. Alla prima partita vera, con la Primavera del Pescara, si presentò a bordo di una Vespa e con la sigaretta in bocca. Ovviamente, senza scarpe. Gliene dettero un paio d’emergenza. Due misure diverse. Nessun problema, fu sufficiente tagliare la punta di una.

Bologna la gaudente lo adottò e lui ci sguazzava. Passeggiate con la pelliccia in compagnia di belle donne. Bacco, tabacco e Venere, ma anche tanto cuore sul rettangolo di gioco. Solo 5 reti in 148 partite, ma nessuno ci ha mai fatto troppo caso. I compagni lo amavano, generoso sul campo e burlone fuori. Una volta notò una scritta sul muro: “Pace in Vietnam”. Andò a comprare una bomboletta di vernice e aggiunse: “E anche Pascutti”. Un genio.

Dopo i sette anni a Bologna, nel ’72 rifiutò ostinatamente il trasferimento in B a Cesena. Andò a Palermo, ma andò così male che ci finì lo stesso pochi mesi più tardi. Ovviamente, i romagnoli furono promossi.

Giocò qualche altra stagione poi seppe cambiare strada. Supercorso a Coverciano nel ’79. Un covo di rivoluzionari: Agroppi, Zeman e Sacchi compagni di banco. Rifiutò le giovanili della Roma perché voleva misurarsi subito con gli adulti.

E fece bene. Un inizio folgorante: promozione dalla C1 alla B col Modena, poi due anni miracolosi nel Catanzaro orfano di Palanca. Settimo per due stagioni consecutive in serie A, soprattutto grazie al “giocatore più forte che ho mai allenato”: Edi Bivi. “Anch’io lo vedevo come l’allenatore più forte”, lo ricorda al microfono di gianlucadimarzio.com l’attaccante friulano. “Mi ha lanciato a 20 anni quando non ero nessuno, è difficile trovare parole per descriverlo. Era un vulcano, un uomo straordinariamente educato e ironico. Gli devo tantissimo, ha sempre creduto in me”.

Ad altri invece credeva meno. Memore dei blitz notturni di Pugliese, iniziò a fare la ronda per le discoteche calabresi a caccia di Viorel Nastase, attaccante col vizio del… bicchiere di troppo. Una sera lo trovò ubriaco sotto a un tavolo. Provò a parlargli, ma riuscì solo a farsi offrire da bere.

Quando tornò a Bologna per guidare i rossoblù, il suo bersaglio notturno diventò Marocchino. Lo pizzicò spesso ma gli incontri si trasformavano in riunioni tecniche con la musica alta come accompagnamento.

Schemi disegnati su un fazzoletto, una pacca sulla spalla e a casa. Sapevano di avere bisogno l’uno dell’altro e si dettero una mano a vicenda.

Pace allenò anche a Pisa, Avellino, Catania, Pescara e Chieti, dove costruì un legame speciale con Fabio Grosso, suo pupillo assoluto.

Chiuse la carriera a Foggia nel 2002, continuando a dire la sua sul calcio dagli schermi delle tv abruzzesi.

Lassù, qualcuno avrà già avvertito il suo arrivo. Pace in cielo. “Come Pascutti”, aggiungerebbe lui.