Felipe Anderson, goodbye: i due volti di un fragile talento
Felipe Anderson lascia la Lazio e qualcuno si chiede perché. Si domanda il senso. Altri invece no. Sono contenti, sollevati, perfino indifferenti. Sicuramente dispiaciuti, quello sì, ma iscritti al partito del “sai che c’è? Ne arriverà un altro”. Magari anche più forte, decisivo, continuo, trainante e con una personalità decisamente più incisiva. Pensieri inspiegabili (forse). Felipe ha messo sempre la Lazio al primo posto, ha segnato gol decisivi, timbrato assoli da top player, tiri a giro dipinti da Picasso e strappi veloci. Ha segnato anche contro l’Inter, nell’ultima all’Olimpico, prima del crollo finale. Incarnato pregi e difetti di una piazza che vive di assoluti. O contraddizioni. Felipe ha emozionato, anche esasperato, salvo poi tornare a brillare. Ed è un addio che divide.
I DUE VOLTI DI FELIPE ANDERSON
Oggi svuota l’armadietto, sceglie il West Ham e dice goodbye, spaccando il tifo e sollevando il quesito su cui riflettere: “Cos’è andato storto?”. Perché tutti speravano nel classico lieto fine. Varie scusanti: tecniche, tattiche, economiche – per la cronaca, 38 milioni sono la classifica offertona a cui è vietato dire no – l’intransigenza di Inzaghi col suo 3-4-1-1, forse penalizzante per uno come lui, sgusciante e veloce, da progressione in campo aperto. Poi l’exploit di Luis Alberto, l’infortunio dell’estate scorsa, il suo carattere. Una sfilza di attenuanti sicuramente valide, ma incomplete.
L’addio di Felipe Anderson fa arrabbiare, punto. Perché dopo 5 anni, 34 gol, una Supercoppa e l’affetto della gente, non è riuscito a dimostrare davvero il suo valore. Non al 100%. Un potenziale inespresso, martoriato – forse – da una fragilità caratteriale ed emotiva. Felipe ha dato il meglio quand’era spensierato, sereno. Senza vincoli di pressione. Ha dispensato magie con 4 mesi da fenomeno, imprendibile con Pioli nel 2015, dalla rete nel derby alle accelerazioni da playstation. Una furia brasiliana, un titano “da Olimpiade” che nel 2016 ha vinto l’oro insieme a Neymar. A volte l’incantesimo è andato bene, altre no, altre ancora la bacchetta è stata estratta un po’ in ritardo, tra tentennamenti e altre magie, ma è stata rimessa al suo posto poco dopo. Troppo presto.
Ha dato l’illusione, forse, di essere qualcosa che non è più riuscito a ripetere in modo continuo. Un cruccio che purtroppo divide ancora. Felipe, per la Lazio, per i suoi tifosi, per tutti, sarà il ragazzo che poteva dare di più. Il talento che prende 10 al compito in classe e poi si culla sugli allori, smette di studiare, facendosi rifilare un 5 a quello successivo. E’ un genio incompreso che la marina la scuola, ma è capace di recitarti a memoria un paio di poesie. Felipe Anderson è stato questo, nel bene e nel male, se ne discuterà per anni, ma poi pensi alle 5 stagioni con la Lazio e puoi solo sorridere. Turbine di pathos: dal rigore sbagliato contro il Ludogorets in Europa alla rinascita totale, figlia di un riscatto arrivato col tempo e di un gol al Sassuolo col numero 7. Gioia pura, a volte ma non sempre. Ora possiamo solo ringraziarlo, salutarlo nel modo giusto e accompagnarlo in Premier. Senza paternali, giusto un buffetto. Senza chiedersi perché.