Eusebio Di Francesco contro se stesso
Eusebio Di Francesco arrivò per ricucire la crisi di romanità all’indomani di quel 28 maggio del 2017. Data impressa sull’agenda della Roma come il giorno dell’addio al calcio di Totti, quando Spalletti chiese ai tifosi di scegliere. Ma tra lui e l’ex numero 10 giallorosso, l’Olimpico si schierò e applaudì il figlio del popolo, abbassando il pollice verso l’allenatore di Certaldo. Fu scelto il nome di Eusebio per riparare la frattura tra la guida tecnica e lo spogliatoio in quell’estate malinconica e triste per i tifosi della Roma orfani del proprio capitano. Fu scelto per il suo essere romanista ed averlo vissuto quotidianamente da calciatore quello spogliatoio di Trigoria.
Vincitore dell’ultimo scudetto giallorosso del 2001, ma non romano e quindi in parte immune da spinte popolari che già altri allenatori avevano logorato. Un allenatore giovane e dai toni pacati. Per placare gli animi di una piazza in subbuglio e per rilanciare di nuovo, questa volta in cerca di vittorie, la Roma americana. Senza troppi sussulti o pretese e con dichiarazioni sottotono, per non alimentare critiche e speranze che nei precedenti 7 anni di Roma americana erano state disattese. “Sono stato preso per il mio calcio”, si presentò così durante la prima conferenza a Trigoria. La carta d’identità esposta in bella evidenza, per assicurarsi fin da subito la credibilità. Attendibilità delle parole consacrata dai risultati del suo Sassuolo, una piccola squadra di provincia che con lavoro e dedizione aveva vissuto con lui in panchina dolci notti europee. Carta d’identità che dopo un anno, otto mesi e 27 giorni ha però visto cambiare i connotati.
Arrivato come un integralista, perché discepolo zemaniano di un 4-3-3 meno aggressivo, ma sempre propenso a segnare un gol in più dell’avversario prima di difenderlo. È stato quello il suo marchio di fabbrica nel suo primo anno in giallorosso. Un anno che riavvolgendo il nastro oggi risulta poco credibile, domani sarà comunque ricordato come la stagione della semifinale di Champions League, il risultato internazionale più importante della Roma dal 1984. Una contraddizione di termini però si evidenzia dai numeri di una partita, quella contro il Barcellona, che in Catalogna ancora faticano a spiegarsi. Eusebio che schiera un 3-5-2 mai visto, che manda in tilt il copione tattico di Valverde e ripone nel cassetto l’integralismo di cui spesso incolpato. Nel punto massimo del cammino, di certezze se ne troveranno sempre meno. Nei moduli e nelle persone. In un doppio filo che lo legherà nelle sorti con il direttore sportivo Monchi.
Arrivano 11 giocatori in un’estate piena di speranze: Kluivert, Pastore, Marcano, Cristante, Nzonzi, Mirante, Santon, Bianda, Fuzato, Olsen, Zaniolo. L’ultimo nome, l’unico a salvarsi in quest’anno di poche luci e tante ombre. Gli altri invece, mai realmente ambientati all’interno dell’ecosistema difranceschiano. I più additati Pastore e Nzonzi, quelli su cui Monchi ha speso di più per far vivere alla Roma notti europee ancora più indimenticabili, ma quest’anno solo utopia.
Invece in questa stagione sono arrivate i pareggi incredibili contro il Chievo Verona e Atalanta, le sconfitte contro Bologna, Spal, Udinese e il derby. Ma quelle che lasceranno più il segno e che useremo per ricordare il declino di Di Francesco saranno il 7 a 1 contro la Fiorentina, un altro sette a uno che a Roma ricordano malvolentieri dopo la sconfitta con gli stessi termini qualche anno prima contro il Manchester United.
E poi quella più simbolica, il pareggio alla Sardegna Arena contro il Cagliari. Una Roma avanti 2 a 0 che si fa rimontare fino al pareggio, segnato dai sardi in 9. L’immagine non è l’esultanza di Sau, ma la smorfia di Eusebio sprofondato nella panchina. Quando era a Sassuolo diceva «Mi ritengo fortunato di vivere nel mondo del calcio, perché mi piace emozionarmi per le gesta dei calciatori». Quelle emozioni ormai assopite dopo quel gol. Dove dalla sua bocca uscì un sorriso. Antitesi delle emozioni personali. Smorfia di nervi e delusione. La fine del calcio di Di Francesco, anche in quell’occasione arrivata con un modulo diverso dal 4-3-3.
Infine l’ultima partita, quella di non ritorno, dopo che già altre due volte (contro Bologna e Viktoria Plzen) era riuscito a tenersi stretto quella panchina. In quella competizione che un anno prima lo aveva elevato tra i quattro allenatori più forti di quella stagione, ha tradito le sue convinzioni. Stracciato la sua carta d’identità. Giocandosi di nuovo una partita lontano dal suo integralismo tattico. Prima della sua ultima partita aveva provato la chiamata alle armi: “Conta solo la Roma”, ma la sua Roma non c’è più. Lontana dal suo 4-3-3. Dal calcio offensivo e dalla linea difensiva alta. In quella difesa a tre che contro il Barcellona un anno prima era stata decisiva. Riuscendoci perché la Roma era viva e credeva in quelle idee. Quelle che sono mancate a Oporto, il capolinea di Di Francesco.