Essere uruguagi, essere Cavani
Segna una doppietta, torna a difendere, esce per infortunio, piange al fischio finale: la partita del Matador è un manifesto dell’Uruguay. Con Tabarez e Galeano sullo sfondo
Gol a parte (e basterebbero, eccome se basterebbero), ci sono tre momenti di Uruguay-Portogallo nei quali Edinson Cavani diventa un manifesto del calcio e quindi – anche – dell’essere uruguagio. È la mezz’ora del primo tempo e il Matador la testata che ha indirizzato la partita l’ha già data da venti minuti: lo ritroviamo però a difendere sulla fascia contro Cristiano Ronaldo, con successo. Riesce a strappargli la palla dai piedi e ripartire. Il secondo momento è successivo anche al secondo gol: ad un quarto d’ora dalla fine, Cavani sente tirare, zoppica. Ed è proprio Cristiano Ronaldo a sorreggerlo e accompagnarlo fuori dal campo: come dire, il campione che riconosce un campione, Cavani si fa “riconoscere” da Ronaldo. “Questa è la tua serata”. E poi c’è un’ultima immagine, quella del fischio finale: Cavani è in panchina, chissà cosa ne sarà del suo Mondiale, però è lì che soffre e quando la partita finisce scoppia in lacrime. In quelle lacrime c’è tutto l’Uruguay di Cavani e Galeano, di Tabarez e di quella classe di bambini uscita a festeggiare in cortile dopo il gol allo scadere contro l’Egitto.
In una recente lettera al se stesso bambino scritta al The Players Tribune, Cavani ricorda le parole del papà: “Quando attraversi la linea e vai in campo, c’è solo il calcio. Niente ti condizionerà e potrai sentire la sporcizia sotto i tuoi piedi nudi, con il cuore che ti batte fuori dal petto e come se stessi giocando per il trofeo più grande del mondo o semplicemente per il gelato”. Se n’è ricordato anche contro il Portogallo, quando sul cross tutt’altro che tenero di Suarez ci ha messo la testa, la faccia, il petto e ha corretto in porta. E quando ha ricamato il destro a giro su suggerimento di Bentancur (autore di una grande partita, come Laxalt). Fare gol è un po’ come sentirsi liberi e per Cavani “l’unico vero posto in cui poterlo essere per 90 minuti è il rettangolo verde”. Non può che essere così per un uruguagio nato a Salto, bambino abituato a giocare a calcio a piedi nudi. Come diceva Galeano, la prima parola di un neonato charrua non è “mamma”, ma “gol”. E per rendere felice un bambino, da quelle parti, non bisogna spiegargli cosa sia la felicità ma consegnargli un pallone. Magari prospettandogli la Coppa del Mondo: “Giocare con l’Uruguay? Lo farai e avrai esperienze che ti faranno piangere lacrime di gioia e lacrime di tristezza”. Le stesse lacrime apparse sul suo visto al fischio finale.
Questo Uruguay non lascia indifferenti. È una squadra tatticamente intelligente, ha la grinta che il mondo ha imparato a conoscere, ha Suarez, ha anche classe e talento. Torreira, Bentancur, Nandez… il maestro Tabarez li ha schierati tutti insieme, confermando il cambio di modulo visto contro la Russia. Il risultato è stato un primo tempo quasi perfetto, mentre nel secondo la squadra si è abbassata un po’ troppo. E poi è arrivato il Pelado. Caceres? No, Cavani. Che nella lettera ha svelato che da bambino i capelli non erano così folti e che dunque questo era stato il suo primo vero soprannome. Uruguay, terra d’orgoglio, appartenenza, calcio e lezioni. Quella di Oscar Washington Tabarez, che commuove ancora: medita, tenta di scattare, dà indicazioni. Il tutto con quelle stampelle a ricordargli la neuropatia periferica che lo affligge, ma che non lo abbatte. “Ho riannodato il filo”, ha detto qualche giorno fa. Il filo dell’identità tra il popolo uruguagio e la Celeste, solidissimo tanti anni fa dopo le due vittorie in Coppa del Mondo, poi più sottile, ora nuovamente spesso e ben annodato dopo l’avvento del Maestro. Il filo con la sorte, per Cavani, sembra però essersi reciso “quando ho sentito tirare il gemello sinistro”. “Speriamo non sia grave” ha detto al Clarin, ma le sensazioni non sono troppo positive. L’Uruguay – e non solo – si augura che il suo Mondiale possa proseguire: per inseguire insieme a lui l’utopia narrata da Galeano, quella che si sposta allo spostarsi dei propri passi. “È irraggiungibile, per quanto io cammini. E allora a cosa serve? Proprio per questo, per camminare”.