Essere Johan Cruijff, raccontato da Stefano Borgonovo
“Ecco, quel giorno del 2005, vedevo i bimbi sul campo e non chiedevo altro:
erano e sono la mia gioia infinita. Calciatori sani e felici, fantastici con
l’èta giusta, tanti specchi che riflettevano l’immagine di me. Da piccolo
ero come loro. Anzi, io ero Johan Cruyff e l’oratorio di Giussano il mio
stadio dei sogni. Dribblavo tutti. Giocavo sempre, con il calcio come unico
comandamento. Mani giunte e palloni ai piedi, tifavo Juventus e viaggiavo
spedito, purché alla fine del cammino ci fossa una porta con dentro un
portiere. Mi avevano programmato per arrivare esattamente lì.
Prima di iniziare la partita mi confessavo, davanti ai preti ma soprattutto
davanti ai compagni: “Io sono Cruyff”. E non è che fosse un gran peccato,
soprattutto per chi giocava nella mia squadra. Correvo, segnavo e mi
divertivo, i miei genitori avevano un banco al mercato e io il posto fisso
sul campo. Abitavo lì. Mi volevano il Como, l’Inter, il Torino e il Milan
perché non stavo mai fermo e anche loro avevano capito chi ero: un attacante
scappato dal calcio balilla.
Respirare. Era bello respirare. Coi polmoni pieni di tutto, perché a
quell’età butti dentro senza distinzioni né selezione all’ingresso: aria,
smog, speranze, delusioni e sogni ma alla fine non stai mai male. Vivi senza
saperlo, impari le regole di un gioco più grande di te. Ero Cruyff e questo
mi rendeva felice. Ogni tatno lo raccontavo ai bambini della Scuola Calcio,
sentirsi grandi è un impegno ma certe volte fa bene. Ti aiuta a capire dove
sta il traguardo, a evadere per un momento, a tifare il fiato finché ce
l’hai.
Ho giocato nel Como, nella Sambenedettese, nel Milan, nella Fiorentina, nel
Pescara, nell’Udinese, nel Brescia e forse non sono mai cresciuto fino in
fondo. Niente male.
Sono rimasto quello che si sa emozionare, anche se adesso si nota meno. È
tutto più intimo. È cambiata la prospettiva, meno solo e più solitario. Come
in quelle eterne partite a carte, tu contro il computer, uno contro l’altro.
Chi prevede la mossa dell’avversario vince. Nel mio caso, con una differenza
sostanziale, che mi salva la vita: il computer gioca con me. Ventiquattro
ore su ventiquattro. Stiamo dalla stessa parte, lui ragiona e io attacco.
Perché non ho perso la voglia. Perché io sono Cruyff”.
Da “Attaccante nato”, di Stefano Borgonovo e Alessandro Alciato
Capitolo: “Senza respiro”
Pagina 17, 18, 19