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Empoli-Palermo, il derby di Fulignati. Da carnefice del suo passato, a tifoso di entrambe. “Tra qualche mese le rivoglio in serie A”

È strana la vita. A volte ti sbatte in faccia la porta dei sogni. Altre ti mette in panchina ad attendere il tuo momento, altre ancora ti manda sul palco a fare ciò che non avresti voluto fare. Il 28 maggio dell’anno scorso, all’ultima giornata del campionato, Andrea Fulignati, classe 1994, giocò la partita più difficile della sua carriera. Difendeva la porta del Palermo, già retrocesso, contro un Empoli disperatamente a caccia della vittoria – salvezza. Già, proprio l’Empoli, la squadra della città in cui è nato, quella con cui è cresciuto, fra spalti e campo.

“Fu una settimana infinita, cercavo di isolarmi, ma era difficilissimo”, racconta ai microfoni di gianlucadimarzio.com. “Tanti amici con cui avevo condiviso anni al “Castellani” scendevano a Palermo per evitare un incubo. Mi piangeva il cuore, ma io dovevo solo pensare a fare il mio lavoro”. E lo fece, in modo superbo. Tre miracoli su Krunic, Zajc e Thiam tennero la partita bloccata sullo 0-0. A 450 chilometri di distanza dal “Barbera”, il Crotone vinceva con la Lazio. Il “suo” Empoli, nemico di una sera, era con un piede in serie B. “Dalla Calabria non arrivavano notizie positive. Passammo in vantaggio con Nestorovski e raddoppiammo con Bruno Henrique a una dozzina di minuti dalla fine. Vidi capitan Pasqual inginocchiato a terra. Era l’immagine della resa. E lì, buttando un occhio a quei ragazzi in curva che conoscevo bene, sentii che anche una parte di me stava retrocedendo”.

Andrea lo scrisse in un toccante post su Instagram. “Ho fatto quello che dovevo, ho fatto quello per cui sono pagato e ho anche fatto quello che il mio cuore non voleva!!”, esclamò sui social pochi minuti dopo la fine, quasi a volersi togliere subito un macigno dall’anima. “Ricordo che andai a consolare il mio collega Alberto Pelagotti, ex compagno di scuola di mio fratello. Le sue lacrime mi toccavano particolarmente: portiere ed empolese come me, un simbolo vero”.



Portieri empolesi, come nella tradizione della famiglia Fulignati. Tutti biancazzurri, in epoche diverse. Nonno Sergio negli anni ’40, papà Stefano sul finire degli anni ’70 fino ad Andrea, per un paio d’anni da giovanissimo, prima di essere scartato, ancora adolescente. “Mio padre ci rimase male e forse per lui, anche se non me l’ha mai detto, la mia prestazione di quella sera è stata una piccola rivincita. Ma un momento non cambia la storia della nostra famiglia. Lui va ancora al “Castellani”, il posto dove mi portava da piccolo e dove mi sono innamorato del calcio. E di Gianluca Berti, il numero 1 della mia infanzia”. Un altro che, come lui, dopo la Toscana, andò a Palermo. “In Sicilia ho vissuto gli anni della mia formazione. Ho imparato tantissimo, trovando una seconda casa e amici veri”.

Tra questi anche un suo omonimo, suo coinquilino per un anno. “Il Gallo Belotti, una persona incredibile. Quante partite a briscola abbiamo fatto con le nostre compagne… Era forte anche lì, non come in campo però…”. Oggi il suo vecchio compagno di casa è diventato il simbolo del Toro. Un altro piccolo derby per Fulignati, tifoso juventino. Anche se il bianconero che oggi conta davvero per Andrea, è quello del Cesena. La squadra che quest’estate ha puntato su di lui. “Mi trovo benissimo. È la prima stagione in cui ho così tanto spazio e voglio ripagare questa fiducia. L’ambiente è splendido e sono certo che anche la classifica presto tornerà a esserlo”. Il Cesena ora è quint’ultimo, in zona playout. Empoli e Palermo sono in un altro emisfero della classifica. Ma per Andrea, la loro sfida, è un cerchio che presto dovrà chiudersi. “Sono le due squadre più attrezzate, insieme al Frosinone. Vivo l’attesa di quest’incontro, ripensando all’anno scorso, ma con uno spirito diverso. Perché sogno di vederle salire a braccetto a giugno. Per me sarebbe una doppia gioia”.

Andrea aspetta, sulla riva del fiume. Non da uomo in cerca di rivincite, ma da pescatore, l’altra sua grande passione. Passatempo da portiere, da uomo capace di vivere bene le proprie solitudini. Perché come diceva Cesare Pavese, “il mestiere del portiere sviluppa le attitudini meditative. Si vede il mondo arrabattarsi davanti e si fa niente”.

A volte però capita di fare fin troppo. E di pescare, in una sera di maggio, la retrocessione della tua città. Un dovere da professionista. Un piccolo dolore che ancora resta.