Di Biagio: “Migliori giovani allenati? Berardi, Bernardeschi e Donnarumma. Occhio a Dimarco e Locatelli”
Passare dalla Lazio alla Roma? Nel corso della sua lunga carriera è successo anche a Luigi Di Biagio: nonostante qualche difficoltà iniziale alla fine gli andò bene. Ma andiamo per gradi. Esordio nel mondo del calcio tinto di biancoceleste per l’attuale ct dell’Under-21. Nel 1982 entrò a far parte del vivaio della Lazio, squadra per la quale tifava, e divenne presto il pupillo di uno dei leader, Ruben Sosa:
“Da ragazzino mi piacevano Lothar Matthäus e Ruben Sosa, al quale cercavo di assomigliare” – si legge nelle pagine del Corriere dello Sport – “Poi ho avuto la fortuna di allenarmi con lui che mi prese in simpatia e mi aiutò a crescere. Nel giugno del 1989, contro la Juventus, ci fu l’esordio in serie A, con la Lazio. Perdevamo quattro a due, mancavano sette minuti alla fine. Io ero teso, ovviamente. Materazzi, che era il nostro allenatore mi guardò e disse, semplicemente, la parola che per me è la chiave per interpretare bene il calcio. Mi disse “divertiti”. E basta. E così tutto cominciò. Poi passai al Monza. Per otto anni ero stato tra i migliori delle squadre giovanili biancazzurre. Fui ceduto così, senza che si preoccupassero di seguire il percorso di un talento che avevano allevato in casa. Lo dico senza rancore. Visto come è andata penso sia stato un danno, per loro. Mi acquistarono Marotta e Carnevali, quello del Sassuolo, che mi presero prima in prestito e poi a titolo definitivo. Realizzarono una bellissima plusvalenza, quando poi mi cedettero al Foggia“.
Migliori allenatori avuti da giocatore? “Allestirei un podio e ci metterei Zeman, Mazzone, Lippi, tre modi diversi di pensare il calcio. Forse proprio per questo sono stati così importanti nella mia formazione. Zeman mi ha fatto capire la cultura del football. Il valore di un gioco offensivo, coraggioso, non micragnosamente speculativo. Se Zeman aveva un difetto era quello di faticare a gestire le squadre quando c’erano grandi campioni. Detto questo, lui è stato un innovatore strepitoso. Zeman insegnava, trent’anni fa, il calcio che si pratica ora. Lippi è un grandissimo nella gestione del gruppo e nel proporre la mentalità vincente. Un mix perfetto di tecnica e psicologia. Mazzone sembra burbero, può dirti cose pesantissime. Solo più avanti scopri quanto ti voglia bene e ti aiuti a crescere. Quello che mi fa arrabbiare è che passi per un difensivista mentre era bravissimo a insegnare alle squadre come attaccare e pressare”.
Dopo essere cresciuto nella Lazio, Di Biagio, nel 1995, come detto, passò alla Roma: “Mi comprò Sensi per volere esplicito di Mazzone. All’inizio non fu semplice. Mi portavo addosso l’etichetta del laziale. Si sa, Roma è fatta così, è anche il suo bello. Il derby dura ogni giorno, ogni minuto dell’anno. Fu un anno comunque bello. Passai dai fischi agli applausi, da parte dei tifosi romanisti. Alla Roma io sono rimasto legato, affettivamente. Totti? Allora era un bambino. Io e Petruzzi lo andavamo a prendere con la macchina per portarlo agli allenamenti. Mazzone lo ha tirato su come un figlio e credo che poi Zeman gli abbia insegnato molto, soprattutto una mentalità vincente. Il talento di Francesco, si sa, è infinito”. Inter? Squadra imbottita di campioni: “Oriali fece l’operazione e mi trovai nerazzurro. Era una squadra stellare quella che si andava formando. Coppia d’attacco con Vieri e quello che per me è stato il più grande calciatore degli ultimi venti anni: Ronaldo. Se fosse stato meglio fisicamente e avesse giocato di più avremmo vinto tutto. Davvero un “fenomeno”. Campionato 2001-2002? Ancora ci soffro. Volevo vincere lo scudetto nella mia città. E avevo segnato anche il gol del due a uno. Poi tutto crollò, nessuno sa perché. La Lazio fece la sua parte ma noi ci liquefacemmo”.
Nazionale? Ottime prestazioni per Di Biagio, ma purtroppo tutti lo ricordano sempre per la traversa colpita nei quarti di finale di Francia ’98, contro i padroni di casa: “E’ una croce che mi porto appresso. E che spesso offusca tutto quello che di buono ho fatto, o spero di aver fatto, per la nazionale e il calcio italiano. Per esempio tutti dimenticano che, due anni dopo quell’errore, io tornai sul dischetto agli Europei nei rigori con i quali ci giocammo la partita con l’Olanda. E segnai. Ma quello nessuno lo ricorda. E’ normale, fa parte del mestiere. Non lo vivo con angoscia, mi dispiace solo di aver fatto dispiacere a tanta gente. Vorrei che ogni bambino innamorato di calcio provasse quello che ho vissuto io in quei cinquanta passi dal centrocampo al dischetto del rigore. Vorrei che ciascuno provasse quella sensazione di orgoglio, quell’adrenalina, responsabilità, che si sente in momenti così. Dopo aver fallito il rigore i miei compagni, amorevolmente, mi aiutarono a tornare negli spogliatoi, in verità barcollavo. Ad Albertini, che aveva sbagliato prima di me, dico sempre che mi deve una cena perché nessuno si ricorda del suo errore. Il mio sembra indelebile”.
Addio al calcio quasi in silenzio: “Era un Ascoli-Palermo. Io avevo problemi fisici, in quel periodo, e uscii dopo pochi minuti. Non ci fu nulla di celebrativo. Smisi silenziosamente. Al momento non fui triste. Dopo sì. Il sabato e la domenica ero nervoso. Non riuscivo a vedere e a seguire il calcio. Mi mancava lo spogliatoio, le docce, i compagni di squadra, l’adrenalina . Durò un anno. Poi capii che dovevo trovare nuovi stimoli. Anche portare tuo figlio a scuola lo è. Quando un calciatore smette deve rendersi conto che è un uomo ancora giovane e che deve cominciare una nuova vita. Come è nato il rapporto con l’Under 21? Demetrio Albertini, forse per non pagare la famosa cena, mi disse che in federazione stavano ristrutturando il settore giovanile. Così cominciai facendo l’osservatore per l’under 21 allenata da Ciro Ferrara. Poi mi chiesero di allenare l’under 20. Ero incerto e poi accettai. Restai due anni lì e ora da quattro sono con l’under 21″.
Tanti i giovani talenti allenati negli ultimi anni: “Ora mi viene da dire Berardi, ma non lo scopro io che è un campione. Poi Bernardeschi e il sorprendente Donnarumma, così maturo a un’età così giovane. Un tecnico si deve dire fortunato quando ha la possibilità di allenare talenti così. Io lo sono stato. Dall’under 15 all’under 21 in qualsiasi torneo ce la giochiamo. I talenti, la cultura calcistica ci sono. Il problema è che questi giovani giocano poco nelle loro squadre di appartenenza. L’Under 19 ha fatto un ottimo europeo. Posso citare l’esterno sinistro Dimarco o Locatelli. Certo ancora non si vede all’orizzonte il nuovo Del Piero o il nuovo Totti o il nuovo Baggio. Comunque mi sembra che gli allenatori dei ragazzi abbiano ormai capito che si deve lasciare più libertà a un giovane giocatore, più possibilità di esprimere il suo talento e il suo estro. Sono stati molto utili i richiami di Allegri, il suo ripetere sempre che cerca giocatori di qualità. E qualità e forze fisica non sono in contrasto. Guardate Dybala: atleticamente è un torello”.