Dall’intuizione di un vecchio scout alla Coppa del Mondo: viaggio alle radici di De Paul
“Aveva una maglia che gli andava due volte, ma giocava già come un veterano”, De Paul raccontato da chi lo vide giocare per primo
Una palla di cuoio che arriva dall’alto e un ragazzino con una maglia di due taglie più grandi che la stoppa con la classe di un veterano. Dribbling a saltare due difensori, uno sguardo al portiere e un destro preciso infilato all’incrocio dei pali. O dei maglioni. Già, perché il viaggio nel mondo del pallone di Rodrigo De Paul è partito da lì, dal Racing e da quei campetti a 100 metri da casa sua, in cui spesso si giocava senza scarpe e in cui a volte mancavano addirittura le porte. Si lavorava di fantasia. “Rodrigo a sette anni giocava già come adesso. Stesse caratteristiche, stessa visione. Credimi se avessi dei video te lo farei vedere, ma è lampante: per come si mette con il corpo e per come calcia e persino… per come protesta con l’arbitro. Quando lo guardo giocare oggi mi sembra di rivedere quel bambino che qui ad Avellaneda faceva impazzire tutti”.
A raccontarlo è Ramón Medina, che da quelle parti è conosciuto da tutti come Monchi. È considerato un’istituzione ad Avellaneda. Occhi aguzzi, sguardo esperto e sicuro. Uno che quando ti dice una cosa quella è e bisogna fidarsi. Durante la chiacchierata sottolinea più volte che è stato lui il primo a vederlo giocare, a scoprirlo ma soprattutto a offrirgli la possibilità di giocare per il Racing. “C’è un torneo per bambini che noi qui chiamiamo Baby Futbol. Si gioca cinque contro cinque o sei contro sei e si va in campo per rappresentare un quartiere o una zona della città. Capitava che i bambini giocassero anche scalzi e che le partite si facessero sempre al ‘meglio di 5’”. Calcio di strada nella sua forma più pura.
“Erano però incontri molto sentiti tra i ragazzi. Io lì vidi De Paul giocare per la prima volta. Dribbling, corsa, colpi di tacco, sombreri e chi più ne ha più ne metta. Cose non comuni per un ragazzino della sua età. Io ne ho visti tanti, ma lui te lo assicuro stava in campo in modo spettacolare”. Così Monchi lo adocchia, ci va a parlare e lo convince a presentarsi al campo per un provino. Da lì è iniziato tutto, nadir del suo percorso. “Il sabato giocava con noi e la domenica con gli amici al campetto del quartiere. Ma non solo lui. Qui queste partite sono prese in modo molto serio. E quando sei bambino, forse ti importa anche di più delle gare ufficiali”.
Quando parla di De Paul, Monchi si emoziona. “Ci sono vari momenti della sua carriera che io porto nel cuore. Penso di essere una delle persone con cui lui ha passato più tempo nel nostro club, da quando l’ho portato a sette anni fino a quando è stato ceduto al Valencia non ancora ventenne. Ho condiviso con lui tante cose. Domenica quando l’ho visto con la Coppa del Mondo in mano mi è venuto da piangere”. Gli sarà venuto in mente quel pomeriggio di quasi dieci anni fa in cui Rodrigo faceva la sua prima partita con i grandi. “Entrò al posto di Camoranesi, che era il suo idolo. A vederlo c’era tutta la sua famiglia, compreso suo nonno Osvaldo che lo seguiva sempre. Oggi gioca per lui, diceva sempre di volerlo rendere orgoglioso”. Domenica gli ha dedicato la vittoria, alzando gli occhi al cielo e dando un calcio al destino e alla sfortuna. Sollevare la coppa per lui aveva un significato in più.
“Il Racing sarà per sempre casa sua”
Al racconto di Monchi fa eco quello di Claudio Úbeda, ex difensore del Racing e direttore generale al momento dell’arrivo di De Paul in squadra. “Mi ricordo bene il momento in cui Monchi mi ha parlato del ragazzo. Era certo di quello che mi stava dicendo, mi convinse in un minuto e fui costretto a fidarmi. Poi negli anni ho scoperto una persona vera. Arrivava sempre con il sorriso, scherzava con tutti, ma quando si entrava in campo aveva una professionalità unica.Ci sentiamo ancora spesso al telefono. Ogni volta che torna a casa sua passa qui a salutare, si mette a guardare gli allenamenti dei ragazzi, dà consigli e cerca di essere un esempio da seguire”. Il Racing per lui è sempre stato una famiglia. “Nel 2016 ha avuto un periodo difficile a Valencia. Con Gary Neville non c’era feeling, non giocava e non si sentiva apprezzato. Era triste. Ha scelto quindi di tornare qui per sei mesi, per ritrovarsi. Dopo sei mesi lo ha preso l’Udinese ed è ripartito. Questo club sarà sempre casa sua”.
Poi c’è la questione del ruolo. “I giocatori come lui da noi in Argentina si chiamano volanti”. È un po’ come il “box to box” degli inglesi. “De Paul è uno che in carriera ha giocato ovunque, regista, mezzala, trequartista, persino punta, con la nove sulle spalle. È uno che lotta, si sacrifica, batte le punizioni e sa inserirsi. Un lavoratore”. In quel ruolo nel centrocampo a tre disegnato da Scaloni è stato uno dei giocatori chiave dell’Argentina al Mondiale. “Io ne conosco tanti di ragazzi di quel gruppo, da Montiel a Lautaro e Lisandro Martinez. Li ho allenati quando giocavano negli under 20 della nazionale. Chiaro però che con Rodrigo il rapporto è diverso, l’ho visto crescere. Mi ha ricordato quel bambino che arrivava al campo con il sorriso e la maglia due taglie più grande di lui che gli stava larghissima. Sognando la Coppa del Mondo”. Oggi quel sogno è diventato realtà. E quelle lacrime versate al fischio finale si chiamano felicità, ma anche riconoscenza verso chi non ha mai smesso di crederci.