Dalla speranza alla rassegnazione. Svezia-Italia, la partita vissuta nel settore ospiti
Le bandiere calate a metà schiena, il trucco tricolore che sbiadisce sui volti. L’allegra speranza di due ore prima rimpiazzata dallo sbigottimento. I mille tifosi italiani lasciano la Friends Arena sotto un temporale improvviso. Piove su Stoccolma e sulle nostre speranze mondiali. Hanno facce tristi, come quella di Simone, pescarese in Erasmus a Stoccolma. Ha cominciato a gridare un’ora prima del fischio d’inizio, ha smesso dopo il palo di Darmian. Cori che calano, teste scosse, mani sul volto. In tanti hanno reagito come lui: scioccati dalla mancanza di reazione degli azzurri, smarriti di fronte alla realtà di un mondiale che si allontana. “Ma come si fa a giocare così? E quando lo mette Insigne?”, sbotta Claudio, immigrato napoletano in Svezia da tre decenni. Già, “metti Insigne”. Pensiero diffuso nella curva F. Non solo perché qui ci sono tanti suoi conterranei venuti a cercare fortuna. Insigne, soprattutto per chi ha lasciato il Paese, è l’italiano che con un colpo di genio sistema i problemi. “È per questo che abbiamo sempre trovato lavoro qui. Perché siamo più svegli degli altri”, racconta il piacentino Daniele. Alla fine Insigne entra, ma non cambia niente. La gente lo difende, perché “almeno lui ci prova”. Con poco successo, però. Se la fantasia non va al potere, l’Italia rischia davvero di non andare in Russia.
“Se siamo questi, non c’è posto per noi in una Coppa del Mondo. Fa male, ma bisogna guardare la realtà”, afferma con pacata sincerità il console italiano, Walter Di Martino. Anche lui ha vissuto la partita in curva, più tifoso che carica istituzionale. È abruzzese, come Verratti. Entrambi non ci saranno al ritorno. “Ha fatto una sciocchezza a prendere quel cartellino giallo, maledizione. A Milano serve un miracolo. Io resto ancora fiducioso”. Ma guardandolo negli occhi, sembra più una frase istituzionale.
Nella parte alta del settore ci sono anche gli Azzurri of Stockholm, la squadra degli emigrati italiani in città. Oreste è il loro allenatore e il loro punto di riferimento. Scuote spesso la testa e allarga le braccia. Birra in mano, battuta facile: “Vai Stefano, scaldati che c’è bisogno”, dice a uno dei suoi ragazzi. Ha la sciarpa della Sampdoria al collo e sua figlia accanto, anche lei rigorosamente griffata in blucerchiato. “Non abbiamo un’idea di gioco. E soprattutto, come lo costruiamo il centrocampo a Milano senza Verratti?”. Da mister navigato guarda già alla prossima, quella che dirà se passeremo alla storia dalla parte sbagliata o se confermeremo una tradizione.
Se ne vanno sconsolati anche i tanti che erano arrivati a Stoccolma solo per questa partita. Accenti diversi, campanilismi sepolti. Tutti sotto un’unica bandiera, dentro per sostenere Belotti e compagni, fuori per ripararsi dalla pioggia. “Giocavo meglio io che di lavoro faccio i cappuccini”, si sfoga Valerio, barista romano. È arrivato con un gruppo di amici. Confidano in successi fuori dal campo, hanno poche ore per conseguirli. “Eravamo famosi all’estero perché sapevamo giocare a pallone e perché piacevamo alle donne. Visto com’è andata la partita, speriamo di non fallire su tutta la linea”, chiosa l’amico Andrea.
Anche gli svedesi lasciano lo stadio. Una deviazione li ha resi più felici e sorridenti di noi, ma non è finita qui. “C’avete solo l’Ikea”, grida un ragazzo con il volto dipinto di azzurro. Per il momento però sono in vantaggio. Escono cantando il motivetto del nostro mondiale vinto. Anche la curva italiana lo intonava a inizio partita: un’invocazione al cielo più che un coro. Un modo di ricordare cos’era la felicità. Tra 72 ore a Milano qualcuno griderà quel “po po ro po po po”. Speriamo che sia l’urlo poderoso dei 75 mila italiani di San Siro. Ci speriamo davvero tutti.
DI CLAUDIO GIAMBENE