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Dal papà Valentino e il pallone di carta a Ronaldo: Mazzola si racconta. Tanti auguri “leggenda”

Ieri Riva, oggi Mazzola. Non è un passaggio di consegne tra generazioni, ma la successione di compleanni di “leggende” del calcio italiano. E’ l’8 novembre 1942 quando un certo Valentino Mazzola e Emilia Ranaldi danno alla luce “Sandrino”. Papà lavora in Fiat, ma ha una passione smisurata per uno sport: indovinate per quale? Valentino Mazzola se la cava piuttosto bene con il pallone, tanto che ben presto diventa uno dei giocatori di calcio più forti dell’epoca. “Sandrino” ha così la possibilità, dopo la separazione dei genitori, di studiare quel mondo da vicino e diventare ben presto la mascotte del “Grande Torino”. Tutto sembrava procedere secondo copione, fino a quel tragico 4 maggio del 1949, giorno del disastro di Superga.

“All’inizio non mi dissero nulla” – racconta Sandro Mazzola ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – “Poi dopo una settimana cominciai a chiedere insistentemente: ‘perché papà non torna a casa’? Poco dopo mi dissero la verità…”. Valentino diventa leggenda, ma di quel papà tanto affettuoso rimane solo il nome illustre. Sandro Mazzola si trasferisce dalla madre e dal patrigno e inizialmente sceglie il basket. “Devo tutto a Benito Lorenzi, ex compagno di Nazionale di mio padre e persona di gran cuore. Inizialmente ero un po’ indeciso perché oltre a fare gol ero bravo anche a fare canestro. Io e mio fratello Ferruccio ci appassionammo così tanto che ogni momento libero della giornata diventava buono per giocare a calcio e anche l’andito di casa o il cortile diventavano campi da gioco improvvisati. Non ebbi più dubbi su quale doveva essere il mio sport. Pazienza sei palloni erano di carta. La paghetta serviva per il biglietto del cinema dell’oratorio, per la gassosa e per la stringa di liquirizia. I soldi finivano così e del pallone di plastica non se ne parlava, tanto meno di quello in cuoio: costavano troppo. In ogni caso con quel pallone di carta imparammo a palleggiare (ride)”.

Poi arriva l’Inter… amore a prima vista: “Eravamo tornati a Castello d’Adda e in una vigilia di Natale venne a farci visita proprio Benito Lorenzi. Era soprannominato Veleno, perché in campo ne diceva di tutti i colori, fu lui a chiamare Boniperti ‘Marisa’. Era una persona eccezionale, un po’ matto. Quel Natale mi regalò un paio di scarpe, perché sapeva che volevo diventare un calciatore: purtroppo erano delle 42 e io portavo il 40! Volle che andassimo a fare le mascotte dei nerazzurri. Così prima delle partite andavamo in ristorante, in galleria, dove mangiavano i giocatori. Poi tutti assieme andavamo al campo, vestiti da Inter e poco prima che iniziasse la partita io e mio fratello ci sistemavamo in una panchina a bordo campo. A fine partita scendevamo negli spogliatoi dove c’era sempre il presidente Masseroni. A quel punto Lorenzi si avvicinava a Masseroni per ricordargli che anche noi avevamo vinto e quindi il premio partita spettava anche a me e Ferruccio: allora era 15 mila lire per il pareggio e 25 per la vittoria (ride ancora)“.

Nel mentre che i ricordi si susseguono la voce di Mazzola si fa sempre più colloquiale: “Era un riconoscimento bellissimo e spesso giocavamo con i campioni della prima squadra. Ci dicevano a turno ‘dai ragazzi, vi portiamo noi a fare il provino per l’Inter’. Ma io e Ferruccio avevamo promesso a Lorenzi che sarebbe stato lui a portarci, non potevamo fargli questo affronto. Però Benito si dimenticava sempre, gli davamo gli appuntamenti e lui arrivava sempre in ritardo o aveva dei contrattempi. A quel punto fu il mio patrigno a prendere coraggio e ad accompagnarci nel campo dove si trovavano i ragazzini, alla periferia di Milano. L’allenatore era Giovanni Ferrari e accettò subito, prima di sapere che cognome portavo. A un certo punto, visto che me la cavai abbastanza bene, disse: ‘Il ragazzo ha talento, come si chiama?’. Solo a quel punto venne a sapere che ero il figlio del leggendario Valentino Mazzola”.

Palla incollata al piede e dribbling in corsa, Sandrino si fa riconoscere subito… Primo contratto e debutto? “Il primo contratto ammontava a 40 mila lire al mese. Ricordo benissimo il giorno dell’esordio. L’Inter per fare dispetto alla Federazione che l’aveva penalizzata facendo vincere lo scudetto alla Juventus, mandò a Torino la Primavera. Avevo tre interrogazioni di mattina, decisive per la mia promozione. Fece tutto Italo Allodi: le interrogazioni nelle prime tre ore, il taxi, un panino e poi a giocare con la Juventus. Tirai anche un rigore e segnai. Anche se non contava nulla esultai come un matto”. Momenti più emozionanti dei primi anni? “Uno dei momenti più belli della mia carriera fu quando, dopo la finale della Coppa dei Campioni 1963-1964, dove segnai una doppietta, Ferenc Puskas si avvicino e mi diede la sua maglia: “sei degno di tuo padre” mi disse. Maglie ne ho di quasi tutti i fuoriclasse dell’epoca, compresa quella di Pelè, ma la maglia di Puskas, per quella frase, è sicuramente il ricordo più piacevole e prezioso che ho.

Campione più forte avuto in squadra e avversario più ammirato?Il compagno Luis Suarez: sapeva fare veramente tutto. E poi era un grande professionista e all’epoca non ce n’erano tantissimi. Ho imparato molto da lui. Il più forte avversario? Sono di parte… Alfredo Di Stefano, era il mio idolo quando ero ragazzino, quindi dico lui. Quando me lo trovai di fronte il giorno della finale rimasi paralizzato. Fu proprio Suarez a dirmi: ‘Allora Sandro? Vieni a giocare la partita o vuoi rimanere lì ad ammirare Alfredo?’. Quando ero piccolo non avevamo la televisione e per vederla si andava nell’osteria sotto casa. A seconda di quello che consumavi ti davano l’opportunità di assistere alle partite e c‘era spesso il grande Real Madrid, guidato da Alfredo Di Stefano. A me ricordava mio padre. Era un giocatore formidabile, attaccava, difendeva, pressava a centrocampo, faceva gol. Per me Alfredo rimane il numero uno”.

C’è un trionfo indimenticabile anche in azzurro: “La vittoria del primo e unico Europeo, nel 68, a Roma. L’Italia era da trent‘anni che non vinceva più niente e fra mille critiche, in tanti dicevano che non eravamo all’altezza, riuscimmo a vincere il campionato europeo. Fantastico come poi fummo festeggiati“. Ronaldo, il “fenomeno”, andò all’Inter grazie a un’intuizione di Mazzola. E’ il più grande colpo da dirigente? “Senza dubbio. Quando mi accorsi che c’era una clausola gettai l’esca agli sponsor: ‘L’abbiamo preso’. Alla fine ci guadagnammo noi. Quello che ho visto fare a Ronaldo, sia durante le partite, che durante l’allenamento, è qualcosa di fantastico. E’ un ragazzo buono, intelligente e sensibile, ma nonostante il suo immenso talento era un giocatore un po’ pigro e a volte non aveva voglia di giocare. Allora in quelle occasioni a fine primo tempo andavo nello spogliatoio e gli dicevo: ‘Allora Ronnie, che facciamo?’. Lui capiva che non ero contento e rispondeva ‘Va bene direttore, adesso gioco. Tornavo in tribuna e dopo 10 minuti Ronny prendeva palla se li dribblava tutti e faceva gol“.

Classe, eleganza, signorilità, anche fuori dal campo. Sandro Mazzola ci ha concesso questa bella intervista il giorno del suo compleanno: non è da tutti. Auguri “leggenda”.