Questo sito contribuisce all'audience di

Dal banco del pesce al rigore parato a Pelé. L’incredibile parabola di Alberto Ginulfi: “A fine partita O’Rey mi regalò la sua maglia”

La sua stretta di mano dice tutto. Vigorosa, sicura, per niente scalfita dal tempo trascorso. “La mia presa era invidiata da tutti”. Alberto oggi ha 76 anni, ma per tutta Roma è ancora il “portierone”. E quando pronunci il suo cognome, una città intera ripensa a quell’amichevole col Santos del 3 marzo 1972. Il giorno in cui Alberto Ginulfi ipnotizzò Pelé: “Erano una squadra fortissima: Zè Carlos, Leo, Edu, colonne del Brasile campione del mondo nel ’70. Noi eravamo una ‘Rometta’, cercavamo di prenderne il meno possibile”, ci racconta nella sua casa di Castel Gandolfo. “Sullo 0-0 – a dieci minuti dalla fine del primo tempo – l’arbitro fischiò un rigore per loro. Pelé andò sul dischetto: prese la rincorsa, fece una finta e calciò rasoterra alla mia sinistra. Mi allungai e la bloccai, con questa mano”.

Alberto apre le cinque dita, sorride e riguarda la foto di quell’attimo. L’istantanea dell’immortalità sportiva. Poi, da un cassetto, tira fuori la divisa numero 10 del Santos. “Al fischio finale, corse da me, si complimentò e mi regalò la maglia”. Eccola lì, immutata, in tutto il suo fascino. Come guardare negli occhi la Gioconda, come accarezzare la Venere di Milo. Una meraviglia che Ginulfi si è guadagnato sul campo: quarto portiere della storia a parare un rigore a Edson Arantes do Nascimento. Uno che ha fatto più di mille gol in carriera. L’amichevole la vinse il Santos 2-0, Pelé non riuscì a segnare contro Alberto. “M’invitò anche al ricevimento all’ambasciata brasiliana. Una serata splendida, c’era persino Benedicto Sormani, grande ex giallorosso”.

Perché Pelé emoziona, ma la Roma è sempre la Roma. “Sono nato nel quartiere San Lorenzo nel ’41. Due anni dopo avrei potuto morire nel bombardamento del 19 luglio. La mia famiglia si salvò, si vede che era destino”. La sua vita da portiere cominciò in quelle strade, fra l’oratorio e le macerie. Tutta l’Italia si rimboccava le maniche, lui non faceva eccezione. A 13 anni vendevo il pesce al mercato di piazza Vittorio. Aiutavo mia zia al banco, stavo lì fino all’ora di pranzo, mi cambiavo e andavo al campo. Anche mio padre era pescivendolo. E romanista, ovviamente”.

Nel ’58, mentre il mondo scopriva Pelé, la Roma ingaggiava Ginulfi. Sessant’anni dopo, i suoi occhi conservano la luce di quel giorno. “Che emozione vestire quei colori. Andavo al Flaminio quando si chiamava ancora stadio Nazionale, prima con mio padre, poi con gli amici. Giocarci era un sogno che si realizzava”. E in quell’anno magico, grazie a un suo celebre compagno delle giovanili, conosce anche Rita De Sisti, la donna della sua vita. Giancarlo, o se volete “Picchio”, è suo cugino. “Ci fece incontrare lui. Siamo sposati da 51 anni”. Sono il ritratto della felicità. “Non mi sono mai persa una sua partita”, interviene Rita. “È ricordato per quel rigore, ma ne ha fatte tante di cose belle in carriera”. Una stanza al piano di sopra racconta le sue vittorie: due coppe Italia, una da secondo di Cudicini nel ‘63/64 e una da titolare nel ‘68/69, a Foggia. Quel giorno, Alberto fu colpito da un oggetto piovuto dagli spalti, ma non fece una piega. Fu medicato e vinse il trofeo al 90’. Ma questo, neanche lo racconta. “Era l’anno in cui Helenio Herrera mi affidò la porta, dopo aver coperto le spalle a Cudicini e Pizzaballa. Nel ’72 vincemmo anche il torneo anglo-italiano. Per la Roma di allora, erano grandi risultati”. Poi un maledetto elettrocardiogramma ne frenò la corsa. “Non avevo niente, era sballata la macchina ma vallo a spiegare. Nel ’69 era morto Taccola, avevano tutti paura”. Due mesi di inattività, addio al sogno della Nazionale e nel ’74, con l’arrivo di Liedholm, il saluto anche alla Roma. Solo pochi anni prima la Juve aveva cercato di strapparlo invano alla sua città. “Allodi ci provò in tutti i modi ma per me esisteva una maglia sola”. Ce ne furono anche altre per la verità a fine carriera, quelle di Verona, Fiorentina e Cremonese.

[videosky id=”404148″]

Poi lasciò il campo e iniziò ad allenare. “Cominciai con i portieri, poi Bigon mi offrì di fargli da secondo a Napoli”. Proprio quel Napoli. Quello dell’ultimo scudetto, quello di Diego Armando Maradona. E come per magia, una maglia numero 10 dell’Argentina compare accanto a quella di Pelé. “Con lui avevo un rapporto speciale. Amava stare in porta in allenamento, soprattutto quando pioveva. Si buttava come un pazzo, tutto infangato. Era un fenomeno, abbiamo vinto tutto con lui. Ed era una delle persone più generose che ho mai conosciuto. Una volta il magazziniere era in ritardo all’allenamento per un guasto alla macchina. Il giorno dopo Diego gliene regalò una nuova. Era così, dava forza a tutti”.

Le opere d’arte ora sono due, entrambe appoggiate su un divano. “Però ne manca una: quella di Totti. Mi piacerebbe averla, per me è stato un 10 di quel livello, è stato immenso. Abbiamo perso tanto, ma purtroppo il tempo è tiranno”.

Poche ore e invece sarà tempo di Napoli-Roma. Per Alberto non può essere una partita come le altre. “La squadra di Sarri merita il titolo, gioca sempre in velocità, è uno spettacolo. La Roma invece mi ha un po’ deluso, mi sembra anche in difficoltà atletica”. Qualcuno da salvare però c’è. Alisson è un bel portiere, oggi ce ne sono pochi di quel livello. Ha intuito e reattività, le doti che non devono mai mancare a un numero 1. E usa bene i piedi. Anch’io li sapevo usare, solo che ai miei tempi non era richiesto”.

All’inizio degli anni ’70, Ginulfi era considerato il prototipo del portiere moderno. Sarebbe piaciuto a Guardiola. E anche in Brasile, dove sono tutti bravi con i piedi. Ma quelli che hanno parato un rigore a Pelé si contano sulle dita di una mano. Preferibilmente, la sinistra di Alberto.