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Da Torino a Firenze, Giovanni come papà Diego 18 anni fa. E per Sarri il Franchi resta un tabù

Ama guardare le stelle e meditare, come nonna Nora. Voleva fare l’astrologo, poi a scelto le scarpe con i tacchetti. Ora entra in campo e guarda sempre la porta. È un rituale per Giovanni Simeone, lo fa ogni domenica: “Mi aiuta a sentirmela dentro” è solito ripetere. Oggi un gol sotto la Fiesole e due dalla parte opposta, davanti al settore ospiti, ad infrangere o quasi i sogni di un popolo che ha cantato e pianto di gioia. Che ha colmato di passione stazioni, aeroporti e piazze. A fine partita, in un Franchi in tripudio per una vittoria col Napoli che da quelle parti mancava da nove anni, risuona proprio “Firenze Santa Maria Novella”. L’entusiasmo azzurro è arrivato anche lì. Oltre 400 tifosi ad accogliere Sarri e i suoi ragazzi. Con il sorriso stampato sul volto prima di salire sul pullman ieri, in ginocchio e sconsolati dopo il triplice fischio di Mazzoleni oggi.

Una città che da stasera, probabilmente, andrà a dormire con qualche speranza in meno. Complice una sconfitta che in trasferta mancava da 18 mesi. Complice una maledizione, quella che Sarri ha con la sua Firenze. Qui è cresciuto, qui ha studiato, qui ha cominciato ad allenare. Ma vincere al Franchi proprio non gli riesce. Non ce l’ha mai fatta, da tre anni a questa parte. Oggi, addirittura, la partita con meno tiri fatti e più subiti della sua era. Gabbiadini a salvarlo nel pazzo 3-3 dell’anno scorso, Higuain due anni fa. Proprio il Pipita, protagonista dell’ultima vittoria fiorentina del Napoli e, soprattutto, decisivo ieri a Milano. Ma sullo scudetto ci sono i piedi anche di un altro argentino, Giovanni Simeone. Come diciotto anno fa, quando papà Diego puniva la Juventus e lanciava la Lazio verso una rimonta memorabile. Ferrara si prende il secondo giallo e lascia i suoi in 10, un espulsione decisiva come potrebbe essere quella di Koulibaly. Diego raccoglie l’invito di Veron e batte Van Der Sar. Gli assist a Giovanni, invece, sono due. Prima Biraghi per il diagonale che passa sotto le gambe di Reina. Poi il tap in ravvicinato sugli sviluppi di un angolo. Infine il passaggio di Chiesa e altro destro a non lasciare scampo agli azzurri. Prima tripletta in viola e primo pallone portato a casa. Tredici gol stagionali, proprio come Batistuta nel primo anno a Firenze. Quanto basta per battere i dodici segnati con il Genoa nella passata stagione. Aveva scommesso in merito con Pioli: “Mister, se vinco io asado per tutti” la promessa. Così sarà. Segna a tutte le big Giovanni. Punite Roma (sia all’andata che al ritorno), Inter, Milan e Napoli. Manca solo la Juve, colpita per due volte in tredici minuti lo scorso anno. Ci sono i suoi gol, dunque, nella corsa all’Europa della Fiorentina. Lui che a 14 anni si è tatuato il logo della Champions League, il sogno di una vita. Quella coppa che il padre non ha mai vinto da calciatore e che ha sfiorato per due volte da allenatore. Chissà se lo avrà già chiamato al telefono. Lo fa tutte le volte, spesso per tirargli le orecchie. “Ma il peggiore è nonno Carlos – aveva raccontato Giovanni in settimana – è lui che ha inventato il cholismo”. Ma non lo chiamate Cholito eh, si potrebbe arrabbiare. Un cognome pesante con cui fare i conti per un paragone che non si può fare. Ma che, delle volte, è inevitabile. Come oggi, come quando si segna gol che possono decidere uno Scudetto. 01/04/2000-29/04/2018. Diciotto anni dopo la storia si ripete, o quasi. Sullo scudetto, per un verso o per un altro, c’è sempre un Simeone.