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Cassano: “L’Inter la piazza migliore in cui ho giocato. Avversario più difficile? Maldini”

L’infanzia difficile, il gol alla squadra del cuore, Francesco Totti. Sono questi i passaggi principali della storia di Antonio Cassano, che si racconta durante una lunga intervista concessa al Corriere dello Sport. Si parte da primi calci al pallone, nella sua Bari:

In mezzo alle bancarelle del mercato che veniva nel quartiere durante la settimana. Il mercato del pesce. Mi sono messo lì a fare i primi palleggi, le prime partitelle. Forse il primo dribbling l’ho fatto a una cassetta di spigole. Poi il pallone è diventato una routine giornaliera e da lì è nato l’Antonio Cassano che tutti hanno conosciuto. Però è nato sulle pietre, tra i mercati. La mia infanzia? Con mille difficoltà però, in fondo, è stata sempre felice, tranquilla e serena. Mia mamma non mi ha fatto mai mancare niente. Con mille difficoltà, mille sacrifici, lavori un po’ di qua un po’ di là, ma non mi ha mai fatto mancare niente. Nelle piccole cose, nel minimo indispensabile per vivere non mi mancava mai niente. Casa mia? Quando non hai una lira la casa come può essere? Era una casa umile e piccola. Scuola? Per me ogni giorno l’orario scolastico prevedeva cinque ore di ginnastica, perché andavo in palestra, anche se non potevo, e giocavo a pallone. Poi arrivavano le sospensioni a destra e a sinistra però per me era educazione fisica ogni giorno, ogni mese, ogni anno”.

Passione per l’Inter: “Da bambino, quando avevo nove o dieci anni e iniziavo a capire qualcosa, la mia squadra del cuore era l’Inter dei tedeschi. All’epoca c’era ancora Maradona. Io ero ragazzo e si parlava sempre e solo di Maradona. Era lui il mio idolo, all’epoca. Un giorno arriva Michele Gravina e mi dice: “Tu devi venire a fare un provino al Bari”. Mi hanno preso a undici anni e da lì è iniziata la trafila al Bari. Giocavo sempre con la maglia numero 10 già tra i ragazzini e giravo per il campo, dove il mio istinto mi portava. Esordio in A? Diluviava, quel giorno non c’erano attaccanti e Fascettimi mise in campo con Olivares. Di anni ne avevo diciassette e mezzo. Un ragazzo. Mi ricordo che avevo fatto una grande partita, però avevo sbagliato due o tre gol e mi stavo dannando l’anima. Nella mia testa dicevo: cavolo Enyinnaya – che esordiva quel giorno – ha fatto un gran gol in un momento chiave contro una grande squadra: mi sa che a lui passa il treno e a me no. E mi dannavo l’anima. Fino al momento in cui Perrotta mi ha fatto un gran lancio, ho agganciato la palla con il tacco, mi è venuto tutto istintivo, l’ho portata avanti, ho visto in velocità arrivare Panucci, sono andato verso il centro sterzando, stavo anche scivolando, sono andato ad incrociare la palla e ho segnato. Segnato il gol che avrebbe cambiato il corso della mia vita”.

Nel 2001 il passaggio alla Roma, prima tappa di una lunga carriera: “Io avevo l’occasione di andare alla Juve però, quando ho iniziato a giocare, ammiravo molto il Pupo, Francesco Totti. Era il giocatore che in quel periodo, in serie A, era diverso da tutti gli altri. Era il più forte di tutti e io mi rivedevo in lui. Dovevo andare alla Juve però quando c’è stata l’offerta dei giallorossi ho detto al mio procuratore dobbiamo andare a Roma assolutamente. Non mi importa della Juve. Sono andato a Roma solo ed esclusivamente per giocare con Totti. Quando sono arrivato nella capitale i primi quattro mesi lui mi ha fatto vivere in casa sua, dove stava con la mamma e il papà. Mi ha fatto sentire a casa, ma non nel modo di dire, a casa sul serio. Mi ha tenuto tre mesi, fino a che non ho trovato un appartamento per me. Mi ha fatto ambientare in pochissimo tempo, in una metropoli grandissima. La differenza tra Roma e Bari era abissale e rischiavo di perdermi, in tutti i sensi”.

L’esperienza a Madrid: “Ho fatto di tutto e di più in senso negativo. Perché c’è gente che pagherebbe oro per andare al Real Madrid con tutti quei fenomeni e io invece ho combinato tutti i casini possibili, andando via dai ritiri, facendo lo stupido, non allenandomi. Pesavo sei o sette chili in più. Quei giorni sono il grande rimpianto che ho, a livello calcistico. La mia felicità era non avere regole, fare quello che mi pareva, fare feste, festicciole, mangiare quello che mi andava, non facendo vita da professionista. Non ho mai avuto vizi di nessun genere, però non sopportavo regole e costrizioni. Ho sbagliato, ho perso una grande occasione. Volevo tornare a casa, perché mi mancava tremendamente l’Italia, mia mamma non stava bene a Madrid, faceva fatica nell’ambientarsi lì. C’era l’opportunità di tornare in serie B alla Juve. Per la seconda volta l’ho rifiutata e sono andato alla Sampdoria perché, come ho sempre detto, la Juve è una bella donna ma non mi prende. Io sono fatto così”.

L’avversario più tosto? “Potevo incontrare qualsiasi difensore. Non temevo nessuno. Ma quello che la sera prima mi faceva dormire male era Maldini. Era veloce, rapido, forte fisicamente, imbattibile di testa, intelligente, qualitativamente il migliore. Poi andai proprio al Milan. Galliani stava per vendere Ronaldinho e gli è venuta l’idea geniale di propormi due anni e mezzo di contratto. Io ho accettato subito perché era una squadra con tanti campioni e si poteva vincere finalmente un campionato.E ci sono riuscito”. L’esperienza nerazzurra: “L’Inter è sempre stata la squadra del mio cuore, sono sempre stato interista. Ho spinto perciò come un matto, quando dovevo andare dal Milan all’Inter, perché volevo a tutti i costi la maglia nerazzurra. Ho fatto una buona stagione, con nove o dieci gol. Poi arrivò quel santone di Mazzarri, che si sveglia la mattina e vuole fare quello che sa tutto, e all’inizio mi disse, perché avevamo lo stesso procuratore, che non c’erano problemi con me. Poi, appena firmato, dichiarò: “Cassano è il primo che deve andare via”. L’Inter per me è stata la piazza migliore, tra le grandi squadre. Delle piccole invece è stato il Parma.