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“Calcio? Iniziai già nel pancione: tiravo certi calci”. Dal Rimini di Sacchi, alla favola Livorno, Protti si racconta

“Fin da piccolo qualsiasi cosa incontrassi nel mio cammino la calciavo: istinto innato”. Già, quell’istinto che ha portato Igor Protti a segnare quasi 250 gol tra i professionisti e a diventare, insieme a Dario Hubner, l’unico attaccante a vincere la classifica dei cannonieri in serie C1, B e A. Dieci anni fa lo Zar ricevette addirittura la cittadinanza onoraria di Bari e Livorno, due delle piazze, insieme a Messina, dove è stato più amato.

Già, e in ognuna di queste mi hanno dedicato un coro personalizzato” – ricorda Protti con un sorriso ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com E’ fantastico sentire tante persone che intonano il tuo nome e da poco è successa una cosa che mi inorgoglisce. A Livorno continuano a dedicarmi il coro tutti gli anni, ma un mesetto fa mi hanno fatto sapere che anche a Bari non si sono dimenticati di me. A Carpi hanno intonato la canzone che mi dedicavano più di 20 anni fa e tutto questo spiega più di qualsiasi altra cosa il legame e l’affetto che si crea con le piazze: mi sono commosso”.

Un giorno si inizia, quasi per caso? “No, io ho iniziato da subito, già nel pancione: mi raccontano che tiravo certi calci (ride). Fin da piccolo qualsiasi cosa incontrassi al mio passaggio la calciavo, quindi è qualcosa di istintivo evidentemente. Passione innata per questo sport. Da ragazzo tifavo per il Rimini, la squadra della mia città. Però, come tutti i tifosi di squadre che la serie A non l’hanno mai vista, tifavo per una grande del calcio italiano, in questo caso il Milan. Il mio idolo era Gianni Rivera, da lui ho ereditato la passione per il numero 10 e poi con il tempo giocatori come Zico e Mark Hughes: entrambi usavano lo stesso numero”.

“Sei troppo leggero…”: quante volte ha sentito questa frase? “Tante. In pochi credevano che potessi fare una carriera importante anche in serie A: avevo carenze muscolari. Ho dovuto lavorare duramente per strutturarmi, ma poi i sacrifici hanno dato i loro frutti. Se pensi che sono partito come centrocampista e ho poi fatto una carriera con più di 250 gol onestamente non ci avrei creduto neanche io. All’inizio non sai cosa ti aspetta e anche se hai talento non c’è niente di sicuro. Ebbi parecchi infortuni, ad esempio a 17 anni, il giorno prima dell’esordio tra i professionisti, mi ruppi una costola: era il Rimini di Arrigo Sacchi. Rimasi fuori per un mese e persi un’occasione molto importante. Mi sono rimboccato le maniche e sono ripartito“.

E’ vero che rifiutò il Milan? “Più che rifiutarlo è stata una scelta. Io venivo dal Rimini e mi acquistò il Milan, dopo un provino l’anno precedente. Mi chiesero se preferivo giocare in Primavera o andare a Livorno, che all’epoca era una società satellite, per giocare in prima squadra. Io avevo molta voglia di confrontarmi con il calcio dei grandi e scelsi Livorno: doveva essere un passaggio. Ma poi il Milan ebbe problemi societari e tutti i giocatori in prestito al Livorno rimasero di proprietà del club toscano. Di quel periodo ho ricordi fantastici, tra i quali i primi gol: il primo in assoluto in Coppa Italia, Pontedera-Livorno vincemmo per 1 a 0. In campionato un Livorno-Sorrento, sempre nell’85, 2 a 1 e feci il secondo gol”.

Poi Messina, amore a suon di gol: “In Sicilia conobbi la serie B. Città e tifoseria caldissime e all’epoca si giocava al vecchio Celeste, con gli spalti attaccati al campo, i palazzi vicini pieni di persone che si affacciavano a vedere le partite. Una cornice meravigliosa. Il legame è stato molto forte. A Messina fui allenato da Beppe Materazzi, che poi rincontrai a Bari”. Già, Bari, dove Protti divenne famoso come primo capocannoniere a retrocedere con il suo club: “Quattro anni fantastici, conclusi purtroppo con la B. Sicuramente il fatto è singolare, perché in più di 100 anni non era mai successo che una squadra che aveva il capocannoniere della serie A retrocedesse. Eravamo spettacolari, con centrocampisti bravissimi ad accompagnare la fase offensiva e sia io che Kenneth Anderson ne traemmo massimo profitto. Purtroppo questo comportava squilibri in fase difensiva e nonostante i tantissimi gol segnati alla fine del campionato i punti totalizzati non bastarono per salvarci”.

E il “trenino”? “E’ stato una casualità. Quell’anno lì, parliamo del 1994, arrivò Miguel Guerrero, che ci raccontò che quando era in Colombia esultava facendo il cagnolino, mettendosi a quattro zampe all’altezza della bandiera. Il problema fu che Guerrero all’inizio parlava solo spagnolo e non capimmo bene. Al momento di segnare andammo tutti assieme verso la bandierina e la trasformammo in un’esultanza di gruppo, il trenino appunto. Fu probabilmente la prima esultanza di gruppo e da allora il giovedì e il venerdì sera anche nei campetti di calcetto spesso la gente iniziò a esultare così, perché era un modo di esultare decisamente simpatico”.

Con la Lazio di Zdenek Zeman tutti si aspettavano la consacrazione, invece? “Anche io (ride ancora), invece non ci fu molto feeling, soprattutto a causa del mio modo di giocare, che non si sposava molto bene con le idee dell’allenatore. Anche a livello personale non riuscimmo a instaurare un buon rapporto: primi sei mesi molto difficili. Poi arrivò Dino Zoff e cambiò tutto. Arrivammo al quarto posto partendo da quintultimi e segnai altri sei gol, uno dei quali nel derby con la Roma al novantaduesimo che per i laziali vale per 10. Quella rete fu decisiva per il piazzamento finale e alla fine la considero una stagione molto positiva per me”.

Nel 1999 il romantico ritorno a Livorno: “Fu il primo amore da calciatore. A Rimini ebbi il piacere di giocare con la maglia della mia città e non lo scorderò mai, ma iniziai a fare il professionista vero in Toscana. Mi innamorai subito di questa città e della sua tifoseria, così passionali. Era da 32 anni che Livorno non vedeva più la serie B, da più di 50 che non giocava in serie A. Il club fallì a inizio anni novanta e ripartì dal dilettantismo: era troppo, volevo fare qualcosa. Tornai con questa idea e centrammo subito la B e dopo due anni la serie A: un sogno. A volte ci si chiede come nasce l’amore per una donna e per una squadra di calcio vale lo stesso: non ci sono spiegazioni, è una cosa naturale. Il gol a Treviso, quello che ci regalò la promozione in B, non lo dimenticherò mai. E ne ho segnato più di 250…”.

C’è un nuovo Protti? “E’ difficile e ingeneroso fare dei paragoni. Ognuno ha le sue qualità, le sue caratteristiche e il suo modo di giocare. Ci sono tanti giocatori molto più forti di me e auguro a loro di fare una grande carriera. Se proprio vuoi un nome dico Lapadula, anche se non è più giovanissimo… Io insieme a Hubner sono l’unico giocatore che ha vinto la classifica dei marcatori in serie B, serie C e serie A. Credo che oggi Lapadula possa fare lo stesso se troverà una squadra che gli permetterà di giocare con continuità: l’ha vinta in Lega Pro e in B. Ha 26 anni, io arrivai in A a 27:il suo percorso è molto simile al mio. Due anni dopo vinsi la classifica dei cannonieri…”.

La Nazionale, forse Protti meritava almeno una chiamata? “Non è andata così e non mi piace avere rimpianti. Sarebbe ingeneroso nei confronti delle persone che faticano ad arrivare a fine mese. Non mi sento di dire che l’avrei meritato, evidentemente era giusto così”. Chapeau.