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Cagliari, Melchiorri: “Il calvario mi ha reso più forte: mi ha cambiato la vita”

La favola di Melchiorri raccontata da… Federico. Il bomber di Treia ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello sport, svelando particolari per certi versi inediti sulla malattia, la rinascita e la gioia delle prime reti in serie A. Il cavernoma, paradossalmente, è stata una fortuna per l’attaccante del Cagliari, che spiega:

“Adesso Sono diverso, volo basso. Non potete capire quanto sono felice, ma non voglio deludere nessuno. È difficile da spiegare. Ma quell’avventura di cui si parla tanto non la vedo come un intoppo della mia carriera. Al contrario. Mi conosco bene. Oggi, a 29 anni, Federico Melchiorri è quello che è, proprio perché ha fatto questo viaggio. Il calvario mi ha reso più forte. Da ragazzo ero sicuro di me, mi sentivo talentuoso, ma ero anche, senza accorgermene, viziato. Mi sembrava tutto facile, tutto… gratis. Senza la malattia mi sarei perso. Ho ricominciato proprio sui famosi campi di polvere del campionato dilettanti, vedendo i miei compagni distrutti dopo una giornata di lavoro ma felici di giocare, è cambiata la cosa più importante: la mia testa. Senza quello che ho vissuto probabilmente sarei un fallito, o fuori dal calcio. Di sicuro meno felice di oggi. Tutto quello che ho l’ho conquistato, con il sudore e col sangue. Non potrò perderlo mai più”.

Come ha scoperto la malattia?  “Nel modo più banale. Ero al Giulianova, in C1. Uno dei tanti contrasti di testa. Lì per lì non sento nulla. Uno stordimento che non passa. Decido di fare una tac. Non sono le diagnosi che ti spaventano, ma l’ignoto. All’inizio nessuno capisce. Accumulo visite, consulti, pareri… Poi un giorno la parola terribile: “cavernoma”. A Verona mi dicono: ‘Forse dovrai usare un caschetto, dopo’. Parlano di tempi di lunghi, operazioni, recupero lento. Capisco che sono fuori. Ero in serie C, Il contratto era agli sgoccioli. Non avevo tutele. L’unica cosa certa: più di un anno ko. Ero su una giostra che improvvisamente si fermava. Operazione? Il 20 maggio 2010 è la data che non posso scordare. Entro in sala operatoria accompagnato da mio padre Enrico e da mia madre Sandra. L’ansia che avevo perduto io era sui loro volti. Vengo preso da una sensazione strana, irrazionale fatalità. Entro in anestesia totale pensando leggero: ‘Chissà se mi sveglio’. Al risveglio mi dicono: ‘Ti è andata bene. Ma dovrai prendere farmaci per due anni’ “.

Melchiorri, inizialmente, accetta: “Ogni tanto mal di testa, ma non è quello il punto. Mi distacco da ciò che amavo di più, il calcio. Resetto tutto, mi iscrivo all’Università di Macerata e mi dico: ‘Federì, non era destino’ .Torno ad allenarmi, con gli amici di sempre, In seconda categoria, al Montecassiano. Per rimettermi in forma, mi dico, prometto a me stesso: non giocherò mai. Non ho contratto né nulla: è un hobby. Nel 2011 mi chiama Bruno Marinelli. Era stato il team manager di una mia antica squadra, ai tempi delle giovanili. E’ spavaldo, ha una voce squillante, un accento marchigiano forte. Mi parla come se ci fossimo sentiti il giorno prima: ‘Federìii!!! Invece di fare lo scemo in Seconda categoria, vieni in Eccellenza. Non volevo. Ero pieno di dubbi. Mio padre mi fa: ‘Se non vai non ti rivolgo più la parola’ “.

Federico alla fine accetta l’offerta del Tolentino: “In quel tempo tutto andava veloce, il senso di urgenza non ti fa pensare: imparo in questa seconda vita calcistica qualcosa che nella prima non avevo capito. Quello che per me è l’essenza del calcio. Devi amare il pallone senza soldi, senza gratificazioni senza nulla”. Dopo la Maceratese la chiamata dalla B e quindi Cagliari: “Vado al Padova segno sei gol che ricordo uno per uno. Poi la squadra fallisce e arrivo a Pescara, a parametro zero. Nel 2015 Chiama Giulini, una telefonata indimenticabile: ‘Stiamo facendo una scommessa per tornare in A, vieni!’. Il 1 aprile del 2016, in allenamento mi salta il crociato. Dovevo ripartire ma stavolta non c’era l’ignoto: avrei lottato contro me stesso. I primi di settembre sono tornato in campo. Soffrivo: il corpo non mi rispondeva. Ero disturbato dai dolori e dai doloretti che ti accompagnano, ad ogni passo, senza darti tregua”.

Minuto ottantotto della partita con la Sampdoria… “Ero convinto di non giocare: il ginocchio dava ancora fastidio, il muscolo non era ancora al 100%… Entro in campo, il dolore scompare: adrenalina, emozione, calore. Non penso più nulla: non al pubblico, al ginocchio o alla fatica. Arriva una palla lunga, scatto. Non sono veloce come penso, ma, un secondo dopo capisco che è una fortuna. Pensavo di arrivare prima io, e invece c’è Viviano. La traiettoria lo manda fuori tempo. Ci arrivo io. La porta mi sembra minuscola, so che in un secondo avrò tutti addosso e… Gol. C’è mio padre che urla in tribuna”. Apoteosi con l’Inter: “La prima rete è figlia di una giocata fenomenale di Di Gennaro. Poi è tutto istinto. Faccio il primo tocco e poi mi ritrovo dentro la rete. Il secondo gol tutto il contrario: astuzia omerica di Colombo, che mi ha dato una dritta mentre ci vestivamo. Mi fa: ‘Handanovic è un mostro, ma ha un tallone d’Achille. Se salti l’uomo sappi che anticipa il cross per svettare nell’uscita’. Ero sulla destra, ho saltato l’uomo ho risentito le parole di Roberto: c’era poco spazio, ma ho tirato in porta».

Festeggiamenti? Nessun “ubriacamento” : “Ho riguardato la partita con Camilla e ho gongolato da casa. Ieri non sentivo nulla, oggi i soliti doloretti. Mi fanno compagnia. Borriello? Non lo conoscete: mi da consigli, mi aiuta. I due gol li abbiamo fatti quando è entrato lui. Puoi dare l’anima, sempre. Ma diventi grande quando capisci che si vince solo come squadra”.