Addio Davide Astori, capitano silenzioso e padre di Vittoria
Una tragedia. La più dura da scrivere, la più assurda da raccontare. Tremano le mani, scende il silenzio e restano i flashback di uno di noi che se ne va. A 31 anni, con una figlia che ne ha appena compiuti due e una compagna, Francesca, che da oggi dovrà crescerla da sola.
Davide Astori è morto. A Udine, in una stanza dell’hotel Là di Moret. Poche ore dopo avrebbe dovuto giocare la sua gara numero 290 in serie A. I compagni lo aspettavano a colazione, sono andati a chiamarlo e hanno trovato il loro capitano senza vita.
Era il loro punto di riferimento. Aveva la fascia al braccio perché sapeva farsi rispettare e ascoltare senza alzare la voce. Dopo la partenza di Gonzalo Rodriguez, era stato scelto per le sue qualità morali. “Ricevere questa nomina è un orgoglio. La eredito da un giocatore forte che abbiamo perso. Spero di poter onorare la fascia come hanno fatto lui e i suoi predecessori”.
Uno di questi, Manuel Pasqual, aveva consigliato di scegliere lui. E quella fascia, l’ha onorata per 25 volte, mettendoci sempre la faccia. Nelle gioie e nei dolori. Quelli sportivi, quelli che oggi ci sembrano così piccoli e insignificanti. Una settimana fa, aveva fornito l’assist a Biraghi per il gol decisivo contro il Chievo. Era stato il primo ad abbracciarlo, come faceva sempre. Il sorriso, la felicità. Come quel giorno a Udine, l’ultima volta che ci aveva giocato: Udinese-Roma 0-1, 6 gennaio del 2015, gol di Davide Astori. Il giorno dopo festeggiava il suo ventottesimo compleanno. Tre anni dopo, Davide non c’è più e resta un vuoto impossibile da riempire.
Mai una polemica, mai una parola fuori posto, la forza tranquilla di un uomo capace di risolvere con la calma le situazioni più complesse. In campo, grazie alla sua tecnica, fuori, grazie alla sua serenità. Tutta la serie A si ferma. I suoi colleghi, gli allenatori, i dirigenti, i tifosi. Tutti accomunati da questa sensazione di impotenza, quasi di inadeguatezza. Perché il calcio costringe a essere sempre gli uni contro gli altri, ma poi tutte queste battaglie, tutti gli scontri, spariscono di fronte all’enormità di un ragazzo di 31 anni che se ne va all’improvviso. E ci si rende conto di essere tutti sotto lo stesso cielo. Non ci sono colori, grigio come oggi o azzurro come quella maglia della Nazionale che Davide ha indossato anche nel giorno di Italia-Svezia. Quel 13 novembre, parlammo tutti di apocalisse, un termine che ci suona così stupido e beffardo oggi. In quel gruppo, Davide era uno dei più apprezzati, per la capacità di alleggerire, nei disimpegni davanti a Buffon o nei ritiri di fronte alle difficoltà.
In quello di Udine, l’ultimo della sua vita, aveva sfidato Sportiello alla playstation. Hanno giocato insieme quasi fino a mezzanotte, per l’ultima volta. L’ultimo compagno a vederlo vivo. Dopo un inizio stagione difficile, avevano reso la difesa viola un bunker. Negli ultimi tre mesi, solo a Genova contro la Samp, la Fiorentina ha subito tre reti. Guarda caso, l’unica partita saltata dal capitano.
La sua carriera era partita da lontano. Cresciuto nella provincia bergamasca, ha mosso i primi passi nel Ponte San Pietro, società affiliata al Milan. Il club rossonero all’inizio lo aveva scartato in un provino. Ci rimase male, Davide, da sempre tifoso del Milan. E come ha sempre fatto, ha lavorato duro ed è riuscito ad arrivare dove voleva: squadra Primavera del Milan, stagione 2005/2006, insieme a Di Gennaro, Ardemagni e Luca Antonelli. Solo quest’ultimo è ancora a Milanello. Poco fa ha lasciato il ritiro. Si è svegliato pensando al derby per poi ritrovarsi distrutto, con lacrime impossibili da asciugare.
Le stesse di tanti suoi compagni sparse in tutta Italia. Quelle di Cordaz, suo compagno di stanza al Pizzighettone, il primo club della carriera di Davide. Quelle di Giulini, presidente del Cagliari, la squadra che ha fatto esordire Astori in serie A, la prima che doveva aprire questa maledetta giornata a Genova. In Sardegna, era arrivato nel 2008 come un giovane di belle speranze e l’aveva lasciata da calciatore affermato nel 2014: 179 presenze, alcune con la fascia al braccio. Esordio a Siena nel settembre del 2008, Allegri in panchina, il primo a credere in questo ragazzo, il primo del club sardo a tornare in Nazionale quarant’anni dopo Gigi Riva. Convocato da Cesare Prandelli. Era il 2010. Quattordici volte ha rappresentato l’Italia, trovando anche una rete contro l’Uruguay in Confederations Cup. Numeri freddi e inutili rispetto all’umanità che Davide portava a Coverciano. E non solo lì.
In Sardegna era diventato uomo e coltivato i suoi interessi. L’architettura, prima di tutto. Nel 2011 aveva aperto un teatro nella zona del Poetto, nel 2013 una gelateria. “La più buona della città”, dicono le recensioni. Si chiama “Cremoso-Dolci emozioni”, un nome che suona così strano oggi. Il gelato era uno dei pochi vizi che si concedeva, nelle passeggiate mano per mano con Francesca. Erano il ritratto della felicità. Si erano conosciuti cinque anni fa, parlando di viaggi. Avevano deciso di iniziarne uno insieme, per sempre. Hanno vissuto insieme una stagione complicata a Roma. Poi Firenze li ha accolti. Il 17 febbraio del 2016 hanno messo al mondo Vittoria. Le loro foto insieme raccontano i primi passi di quella bambina, in mezzo ai suoi genitori, in viaggio con loro. Scorrere quelle immagini è una pugnalata. Lei donna dello spettacolo, lui calciatore eppure niente di più lontano da una coppia stereotipata. Originali, veri, artefici e protagonisti di una felicità che strazia gli occhi e il cuore. La Fiorentina stava per rinnovargli il contratto. Il futuro doveva partire dal capitano, da quel numero 13, scelto in onore di Alessandro Nesta.
109 presenze in maglia viola, chissà a quante sarebbe arrivato. La gente di Firenze corre al Franchi per omaggiare il suo capitano.
Una settimana fa lo applaudiva, oggi lo piange.
Come tutti noi, che amiamo chi onora ogni giorno la vita e questo sport. Addio Davide, uno di noi.