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“Nessuna favola, c’è un percorso di 10 anni”. Accardi ci spiega il suo Empoli

Intervista al direttore sportivo dell’Empoli Pietro Accardi

Nel calcio appena i nomi delle squadre vengono preceduti da apposizioni comincia una retorica spesso ridondante e limitata a parole vuote. Uno status che la favola Empoli, appunto, cerca di allontanare quanto più possibile. “Certe definizioni le lasciamo ad altri. Siamo una piccola realtà, ma cerchiamo di lavorare con metodo e concretezza”. Che Pietro Accardi sia un direttore sportivo pragmatico lo intuisci appena lo incontri. Non serve neanche più l’ormai inutilizzabile stretta di mano per capire che persona sia. Lo sguardo dritto negli occhi, senza arroganza e la voce ferma ma affabile, spiega già molto. Pur con la sola esperienza di Empoli, Accardi sa quello che fa. E anche molto bene, analizzando il recente passato del club.

 

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Anche se la carta d’identità dice 39, o meglio, diceva 32 quando nel 2014 il presidente Corsi decise di affidargli un ruolo dietro la scrivania: “Sembra brutto dirlo così, ma in realtà sono stato quasi costretto a prendere quella decisione. Per 10 anni mi sono portato dietro un problema al ginocchio ma gli ultimi anni ad Empoli erano diventati un calvario. Quando fai una carriera sempre sofferente, non ti diverti più, scoppi”.

Di necessità, virtù. Seguendo però una passione che lo ha anche aiutato a fare quel passaggio alla vita “normale”, un momento sempre delicato per un calciatore: Quando facevo il calciatore ero più attratto dalla parte dirigenziale. Mi piacevano le trattative, mi è sempre piaciuta la parte gestionale. E poi rimettermi gli scarpini per rifare, più o meno, le cose che facevo da calciatore era diventato un peso. L’ultimo anno da calciatore l’ho vissuto facendo da collante dentro lo spogliatoio tra la squadra, l’allenatore e la società, sempre rispettando il mio ruolo. E credo che la cosa sia piaciuta al presidente che mi ha dato l’opportunità di affiancare il direttore sportivo Carli”.

  

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L’enorme riconoscenza è palpabile “devo tanto a Marcello, quei 3 anni con lui sono stati fondamentali”. Un triennio passato alle spalle del direttore sportivo, “lavoravamo a stretto contatto e le decisioni venivano prese di comune accordo. Ma è normale che l’ultima parola la avesse sempre lui, così come la responsabilità finale delle scelte, giuste o sbagliate che fossero. E solo quando mi sono state consegnate le chiavi della squadra ho capito cosa volesse dire essere da solo”.

Il concetto di solitudine è molto vivo in Accardi, ma non in un’accezione negativa. E’ l’unicità della condizione all’interno di una società, che ti obbliga ad osservare a 360° l’andamento del club. Responsabilità sportiva ma anche gestionale, organizzazione tecnica e manageriale. “E’ chiaro che il lavoro di un direttore sportivo spesso viene giudicato dal calciomercato, dai giocatori acquistati e ceduti. Ma dietro c’è tanto altro. Se non tutto”.

 

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I dribbling che riesce a fare pur di non autoincensarsi, parlando delle grandi operazioni condotte negli anni – da Bennacer a Di Lorenzo, passando per Zajc o Caputo – è stupefacente. Chiedere di come abbia fatto a scovarli dovrebbe essere la prima domanda da porre a chi ha portato nelle casse dell’Empoli decine di milioni di euro, e probabilmente anche la prima risposte da dare per elogiare il proprio lavoro. Incalzarlo serve a poco, perché la prima risposta è raggelante: “Cosa vuoi che ti dica? Sono stato bravo? Sì, siamo stati bravi, insieme a tutto lo staff di osservatori. A sceglierli e portarli qui, ma arrivati ad un certo punto il nostro lavoro finisce”.

Rifuggire i meriti non come paracadute sui fallimenti, ma come spiegazione ai trionfi: “Io posso scegliere i calciatori migliori, quelli che ritengo tecnicamente più forti o più giusti per il nostro sistema di gioco. Ma poi in campo ci vanno i ragazzi, le scelte le fa l’allenatore. Il mio lavoro alla fine è determinato dalle loro azioni”.

E qui subentra la complessità del lavoro di chi durante l’anno deve fare in modo che fattori esterni alle sue scelte determinino, non soltanto il suo lavoro, ma l’andamento di un intero club: “L’organizzazione della società, la creazione di un ambiente professionale e confortevole che possa mettere nelle migliori condizioni i calciatori di fare il proprio lavoro. Ma anche tutta la questione psicologica. Ci sono giorni sì e giorni no, per 25 personalità diverse. E queste vanno curate giornalmente, a braccetto con l’allenatore. Ti faccio un esempio, abbiamo introdotto la figura del nutrizionista che segue giornalmente la dieta dei calciatori, così come una palestra all’avanguardia.Questo ci farà vincere le partite? Sarà importante per un gol di Bajrami o un rigore parato da Vicario? Certamente no, ma è un minuscolo tassello di un infinito puzzle che devo creare affinché io possa metterli nelle condizioni migliori per rendere in campo. E’ una stupidaggine, ma i calciatori vedono che la società c’è. Si muove, è sempre pronta a migliorare”.

 

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Fondamentale l’essere stato calciatore ad alti livelli: “E’ chiaro che il mio recente passato mi aiuta. So cosa pensano i calciatori, so cosa vedono, so cosa si dicono dentro lo spogliatoio. E per questo, da dirigente, provo ad intercettare i loro bisogni. Ma non per assecondare capricci, per potermi piuttosto avvicinare di più al fine ultimo del mio lavoro. Il bene dell’Empoli, cercando di determinare i risultati del campo anche da dietro la scrivania”.

Facile? Neanche per sogno: “Da una parte aver finito di giocare poco tempo fa aiuta, ma più passano gli anni più mi rendo conto di come le generazioni cambino. I calciatori cambiano. Ho smesso nel 2014, non trent’anni fa, ma ti assicuro che è tutta un’altra storia. E uno dei tanti esempi che Accardi snocciola durante la chiacchierata colpisce per la forza impattante dell’immagine: “Fino a pochi anni fa lo spogliatoio era rumore. Adesso, a fine allenamento, se passi vicino a quella porta, è silenzio”. Non c’è stantia nostalgia nelle sue parole, “sono solo cambiati i tempi. E io sono obbligato ad allinearmi a quello che è oggi. Gestendolo da dirigente”.

 

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Favola Empoli, miracoli Empoli. Lo stereotipo non come cuscino sul quale cullarsi, ma sostantivo quasi tossico da allontanare: “I calciatori devono respirare professionalità. Siamo una piccola realtà, ma tutto quello che abbiamo costruito in 10 anni, non è un miracolo caduto dal cielo. Lo dice la nostra storia recente, i calciatori che abbiamo lanciato, gli allenatori che da noi hanno iniziato il loro percorso professionale. E noi, come società, come organizzazione, abbiamo cercato di crescere di pari passo con i risultati. Quando Tonelli dice che a distanza di 5 anni ha trovato un club totalmente diverso, per me è un orgoglio. Vuol dire che siamo riusciti a crescere anche sotto quel profilo”. E l’esperienza tra Palermo e Sampdoria ha aiutato tanto Accardi a rivoluzionare il club: “Avendo osservato la struttura di certe società ho avuto gli strumenti per capire cosa mancasse”.

 

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Parlare di se stesso per Accardi è impossibile, dei singoli calciatori forse ancora di più. Ma se si tocca il metodo allora diventa un fiume in piena: Fosse tutto basato sui dati, sugli ormai famosi algoritmi, chiunque potrebbe fare il direttore sportivo. Ti faccio un esempio, pensa alle pettorine per il monitoraggio dei calciatori con il GPS. Noi con quelle abbiamo in tempo reale i dati su ogni singolo movimento e prestazione del calciatore. Solo con quei dati pensi che Andreazzoli faccia la formazione la domenica o decida i cambi durante le partite? C’è tanto altro che deve valutare. Ecco, io credo che gli algoritmi siano strumento fondamentale per capire meglio le caratteristiche di un calciatore, ma io un calciatore lo devo sentire”.

Le sensazioni, le emozioni, l’intangibile come leva decisionale pervade il suo lavoro. “Non c’è stato un calciatore che ho acquistato che non abbia incontrato di persona o sentito al telefono prima di chiudere l’operazione. Posso avere in mano tutti i report del mondo, i dati più specifici, i feedback di agenti e direttori sportivi, ma il contatto umano con il ragazzo è determinante. Perché? Per il discorso che facevo prima. Io posso determinare fino ad un certo punto, ma poi in campo ci va lui. Durante l’anno è lui che gestisce la sua vita e il suo essere calciatore. E l’unico modo per provare ad intercettare il suo modus ce l’ho in questi momenti. Basandomi sull’esperienza e sull’istinto”. Ti guarda negli occhi quando ti spiega cosa cerca nel calciatore. E ritrovarsi inconsciamente con la mente ad uno di quei tavoli di trattativa è un attimo. Chiedere se ha fatto saltare trattative già concluse per delle sensazioni negative, è inevitabile: “No, ma avrei voluto”. Il nome è top secret, “non te lo direi neanche sotto tortura. Ma purtroppo avevo ragione”.