80 volte Mazzone: allenatore capace, uomo vero, emblema di un calcio che non c’è più
La vita in una corsa, come in una rappresentazione teatrale. Viso gonfio, vene dilatate, pugno al cielo. E poi quell’andatura impacciata, quel passo incerto ma incontenibile, fin sotto la curva avversaria. In quei 50 metri c’è tutto Carlo Mazzone, o almeno buona parte. C’è la genuinità, la foga, la romanità. “Se famo il terzo ve vengo a prende”. E così è stato. C’è anche la coerenza in quella corsa. Perché sì, Mazzone è così, non si è mai nascosto dietro ad un personaggio. E’ come è sempre apparso, niente finzione. Al massimo a volte prendeva il sopravvento quel fratello gemello che tanto lo faceva incazzare. L’espressione massima del Mazzone allenatore del popolo si è manifestata quel 30 settembre 2001, in un sentitissimo Brescia-Atalanta. In una delle ultime tappe della sua lunghissima carriera da allenatore. Partita da Ascoli e finita a Livorno. Un viaggio che ha attraversato l’Italia e i decenni. Ha cavalcato epoche calcistiche diverse, sempre con quel suo modo di fare così sincero, schietto. Ha iniziato quando ancora non c’erano i cognomi sulle maglie dei calciatori, si è affacciato al calcio moderno. Ha fatto capolino tra tv satellitari e moviole al rallentatore.
Probabilmente non sentiva più suo quel calcio. Troppo apparire, poco essere. Lui così verace. Nato a Santa Margherita in Trastevere. Diviso tra la centralità di Roma e il provincialismo di Ascoli. Due anime unite e contrapposte nella stessa figura. La romanità lo ha seguito passo passo per tutta la carriera, come un marchio indelebile. Er Sor Magara: un nome tutto un programma. Nato così, per gioco. Coniato dal giornalista del Corriere dello Sport Alberto Marchesi. “Carlo, ma riuscirete a fermare la Juventus?”. Risposta: “Se…Magara!”. Ecco, proprio così. La Roma Mazzone alla fine l’ha allenata pure. Per tre stagioni. Anima divisa a metà dicevamo, eccone un esempio: “La cosa più bella che mi è capitata in carriera? Mo ce devo pensà… Forse il fatto di aver potuto giocare da giovane nella Roma, io romanista”. Però quando gli chiedevano del derby romano rispondeva così: “Guardi, uno che ha fatto Ascoli-Sambenedettese credo che, sul piano dell’intensità emozionale, abbia provato tutto”. Appunto.
Re della provincia, i suoi scudetti sono state le promozioni con l’Ascoli e le salvezze con Cagliari e Lecce. Niente trofei, anzi sì. Ma gli unici due che ha vinto non esistono più. Spariti dagli albi. Ricordi di un calcio passato, volato via. Mazzone era considerato l’allenatore operaio tra la nobiltà del calcio d’élite, formato dei vari Sacchi, Liedholm, Zeman. Lo chiamavano il Trapattoni dei poveri, ma lui rispondeva così: “Amici, Trapattoni è il Mazzone dei ricchi‘. Ironia tagliente. Non mancava mai. Come anche la sincerità: “Sono sempre stato un cane sciolto. Avanti tutta, come un navigatore solitario. Mai avuto padrini, né sponsor. Mai fatto parte di lobby di potenti dirigenti, mai goduto del favore di giornalisti condiscendenti o di raccomandazioni. Se ho ottenuto qualcosa lo devo a me stesso, alla mia determinazione e alla passione che ho messo nella mia carriera. E sono orgoglioso di essere un grande professionista, magari non un grande allenatore, ma certamente un professionista e un uomo perbene”. Tutto Mazzone in una frase.
Allenatore e padre. Padre e allenatore. Ha scovato giovani, ha lanciato talenti. Ha regalato al calcio giocatori che ne hanno fatto la storia. Li ha coccolati come fossero suoi figli. Due su tutti: Antognoni e Totti. Il primo lo ha conosciuto ai tempi della Fiorentina. Lo ha fatto capitano appena ventenne. Il secondo lo è andato direttamente a prendere dalla Primavera della Roma. Un rapporto speciale, coltivato nel tempo: “Mi sentivo papà e consigliere. Quando l’ho preso aveva 16 anni. E gli dicevo ciò che doveva mangiare. Lo buttai subito nelle partitelle con la prima squadra…”. Andò proprio così, un paio di allenamenti e quel “regazzino” venne sequestrato da Mazzone. Inutile dire quello che diventarono poi questi due per il calcio italiano. Un po’ meno giovane, di certo non meno talentuoso Roberto Baggio. Altro rapporto speciale: “Gli voglio bene, è sempre stato silenzioso ma puntuale ed educato. Non l’ho visto una volta far pesare ai compagni il fatto che lui fosse Baggio. Perché il calcio italiano l’ha emarginato”. Ecco, forse era proprio questo che li accomunava. Emarginati, due fuoriclasse poco capiti, non sempre difesi. Oggi però nel giorno del suo ottantesimo compleanno il mondo del calcio celebra Mazzone. Lo fa con sincero affetto e un pizzico di nostalgia per quel calcio genuino che ormai non c’è più. “Auguri Sor Magara”, è il coro che sta attraversando tutta l’Italia. Da nord a sud, da Brescia a Cagliari. Tutti uniti per celebrare un allenatore capace, una persona leale. Un uomo vero.