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41 anni da usignolo di Kiev, spiccando il volo verso la perfezione: Andriy Shevchenko, l’inimitabile Re dell’Est

Freddo glaciale, sottile velo di foschia e il suono di una campanella in sottofondo. Nel cortile dall’asfalto dissestato di una delle tante scuole di Kiev, durante l’intervallo, ci si diverte tra partitelle a calcio e rigori. In porta c’è un ragazzino biondo, piccolo e fragile, pronto ad affrontare l’ultima sfida di giornata prima di tornare al proprio banco tra libri ed appunti. Voleva fare il portiere, Andriy, sfidando sempre i ragazzi più grandi: ma quella fissazione per il gol, con gli anni, ha assunto sempre più i contorni di una malattia, ossessione di ogni minuto speso sul terreno di gioco. E non a caso, poco più di 15 anni dopo e con la maglia numero 7 sulle spalle, quel piccoletto si è trasformato in “Re dell’Est“, a suon di reti segnate e trofei portati a casa.

Una storia di sguardi, la splendida strada che ha condotto Andriy Shevchenko a diventare, stagione dopo stagione, uno dei più forti attaccanti al mondo. Tanti, alcuni molto, troppi significativi: dal timore all’intesa, dalla sfida alla preoccupazione. A partire dal lontano 1986, quando un’URSS in crisi e prossima al totale smantellamento fu colpita dal disastro di Chernobyl: una catastrofe dalla quale fuggire il più lontano possibile, in zone rese irraggiungibili dalle radiazioni emesse dal reattore esploso nella centrale ucraina. Da Dvirkiyshchyna (Kiev) a Maceivka, con occhi pieni di paura nel chiedere a mamma e papà in cosa consistesse quella nube tossica dispersa nell’aria ed in continuo spostamento: preoccupazione messa con il tempo da parte grazie ad un carattere che, lentamente, sarebbe divenuto sempre più forte, anche grazie al mondo del pallone.

Umile, dolce, educato. E forte, tanto forte. Non abbastanza per superare una banale prova di dribbling, secondo la discutibile decisione di alcuni; fenomeno a sufficienza, invece, per diventare parte di un mondo che qualsiasi ragazzino all’epoca potesse sognare: la Dinamo Kiev. Scoperto da un osservatore del club ed inseritosi nelle giovanili come una macchina da gol, al contrario della volontà di papà Mykola di vederlo in esercito, Shevchenko avrebbe presto incrociato altri due occhi in grado di incutere sì paura, ma anche tanta complicità. Allenarsi è un conto, farlo con “il colonnello” Valery Lobanovsky un altro: uno da “Da” o “Niet”, sì o no, senza vie di mezzo e con in testa un’idea di calcio dalla quale era impossibile trascendere. Pressing totale, sforzi sovrumani sino alla nausea e al vomito, per tentare di far più strada possibile: e Sheva, a quanto pare, in allenamento non ha rimesso mai. Apparentemente fragile, mentalmente già un campione: esordio in prima squadra a 18 anni, esplosione totale a quota 21, quando insieme a Rebrov fece impazzire le difese di mezza Europa. Tripletta al Camp Nou, doppietta al Real Madrid, semifinale di Champions League raggiunta e titolo di capocannoniere della competizione, nonchè del campionato, in tasca. Roba da far girare la testa, ad Adriano Galliani soprattutto, giunto segretamente a Kiev un anno prima di portarlo al Milan e pronto a sfidare 17° sotto lo zero per farsi incantare definitivamente da un talento sconfinato, con Ariedo Braida ormai certo nel convincere l’ad rossonero a sborsare cifre importanti per portarlo a Milano.

Sguardi, continui sguardi. Di pura curiosità nei primi giorni a Milanello, che sarebbe diventata da subito casa sua; da bambino con gli occhi che brillano nel debutto a San Siro, che già aveva avuto occasione di vedere 10 anni prima durante un torneo disputato in Italia. Mille dubbi e quesiti sul suo adattamento alla Serie A spazzati via da un “vento di passioni” (tra i tanti soprannomi affibbiatigli) gelido e fastidioso per qualsiasi avversario, mai stanco di lavorare giorno dopo giorno per migliorarsi sempre più. Sorpreso, Sheva, quando scoprì che gli allenamenti in rossonero erano ben lontani dalle tante ore massacranti di lavoro con Lobanovsky: tanto valeva essere sempre l’ultimo a finire sotto la doccia dopo aver esercitato più e più volte il suo tiro. Gol al debutto, capocannoniere della Serie A alla prima stagione in rossonero e l’inizio di quella striscia di gol nel derby che lo avrebbe reso ancor più idolo del tifo milanista.

Con la maglia del Milan Sheva diventa uomo, leader, campione a 360°. Seconda punta con il senso del gol da prima, sguardo fisso verso la porta per calciare non appena si apra un varco. Gol splendidi, dal destro all’incrocio alla Juventus alla tripletta alla Lazio in Supercoppa: ma soprattutto, reti pesanti. Come macigni: l’anticipo su Toldo valso una finale di Champions, il gol-scudetto dopo un minuto alla Roma, il colpo di testa capace di regalare a Berlusconi un’altra Supercoppa Europea. 173 urli di gioia in 7 anni stupendi, nei quali resta scolpito il fotogramma del rigore decisivo per conquistare la Champions a Manchester: quattro sguardi a Buffon, quattro all’arbitro, uno anche a Dida, prima di immergersi nella perdizione del Teatro dei Sogni. “Facendo quei 50-60 metri verso il dischetto ti passa la vita davanti: non ho sentito nemmeno il fischio, dopo il tiro non ho ricordato più nulla”. Destino a due facce, da sogno e beffardo, come in quella serata stregata ad Istanbul in cui per lui, il pallone, non voleva saperne proprio di entrare. Undici metri dolci e amari al contempo, uno dei pochi, veri rimpianti di una carriera clamorosa, insieme a quell’addio vissuto dalla curva rossonera verso un Chelsea che ne ha segnato, parzialmente, un lento declino. In fondo, forse, fu anche lì uno sguardo a cambiare tutto: d’intesa, con la moglie Kristen, per tentare una nuova esperienza che l’avrebbe deluso e riportato, un anno dopo, a casa.

Ancora Milano, poi il suo nido, Kiev, dove l’Usignolo è tornato dopo un lungo volo in Europa nel quale è riuscito a trascinare, quasi da solo, la sua Nazionale ai quarti del Mondiale 2006. Ultima soddisfazione prima di riconoscere che in quel momento, forse, sarebbe stato meglio aprire le ali altrove: non in politica, con una fugace apparizione, ma appena ai bordi di quel rettangolo verde che lo ha visto per tanti anni protagonista. Shevchenko oggi compie 41 anni e siede sulla panchina dell’Ucraina, tentando di ripercorrere le orme di Lobanovsky: per tutti, però, rimarrà semplicemente Sheva. Quell’attaccante perfetto capace di stregare il mondo per almeno un decennio, tra colpi di testa, destro, sinistro e punizioni. Inimitabile. Fare gol in ogni modo, stravincendo anche il Pallone d’Oro nel 2004: materiale che lo incarna pienamente, come giocatore e persona. Rimasto sempre quel ragazzo umile ed educato, che dal volerli parare, i rigori, ha finito per segnarli. Questione anche, e soprattutto, di sguardi, di quelli che cambiano una vita. Da Kiev a Manchester.