Sorrisi e gioia in campo, poi la sostituzione e il silenzio. Infine il tripudio: Buffon, questo l’addio che voleva
Il sorriso stampato sul volto in campo. Gli occhi chiusi e bagnati da qualche lacrima una volta fuori. La tristezza ha preso il sopravvento tutta insieme, al minuto numero 63, alle 16:21. Dopo aver abbracciato Barzagli e Marchisio, compagni di mille battaglie. Dopo aver mandato baci alla famiglia in tribuna, dopo aver applaudito la girata al volo di Mandzukic e il cucchiaio di Dybala. Dopo aver raccolto le ovazioni dello stadio e dei compagni, che l’hanno aspettato in cerchio a bordocampo. Troppe emozioni anche per uno come Buffon, che è sempre stato abituato a pararle. L’ha fatto in una finale Mondiale, in Champions e in campionato. Nei momenti positivi e anche in quelli negativi. Oggi, invece, ha preferito farlo in due tempi, rientrando per un attimo nello spogliatoio nonostante i continui richiami da parte della curva. Quasi a non voler cancellare l’ immagine gioiosa e allegra di se stesso. I tifosi li ha salutati prima del calcio d’inizio e forse non è stato un caso. Sapeva cosa lo avrebbe travolto dopo. Per questo sotto la curva ci è andato durante il riscaldamento. Claudio Filippi, il suo preparatore da ormai sette anni a questa parte, non gli ha detto nulla. Fra un tuffo e l’altro sulle note del “Più grande spettacolo dopo il Big Bang”, con la voce di Jovanotti che risuona forte in uno Stadium pronto alla festa e agli addii. Gigi è lì, con il pugno sollevato al cielo e la voce alta nel cantare gli inni della storia bianconera. Li sa a memoria, succede questo quando giochi per 17 anni con gli stessi colori. “Gigi Buffon eroe immortale” Recita uno striscione”. Qualcuno gli ha passato la sciarpa, altri hanno preferito abbracciarlo forte, mormorandogli i loro ringraziamenti. Una sua gigantografia la coreografia della Sud all’ingresso delle squadre in campo
Giusto il tempo di uno sfogo negli spogliatoi, però. Perché poi Gigi è tornato in campo nel giro di dieci minuti, quelli necessari per mettere a fuoco ciò che gli stava capitando. Prima il silenzio e gli occhi chiusi nel sedersi in panchina, poi le lacrime lontano da riflettori e telecamere. Nel frattempo a Torino ha cominciato a diluviare, come le previsioni meteo in realtà avevano previsto. Però, fino a quel momento, c’era stato il sole. Un altro miracolo dei suoi, forse. Non sono piovute sciarpe, come successo con Del Piero. Anche perché Gigi ha voluto il contatto con la sua gente. Ha voluto toccarli uno ad uno. Non ha raccolto praticamente nulla da terra, gli hanno messo tutto al collo. Una dimostrazione di affetto diversa da parte dei tifosi. Lo hanno riempito di cori, fin dall’inizio. Lo hanno sommerso di applausi anche per gli interventi più facili. Dopotutto solo Fares lo impensierisce, poi un cross sbagliato di Romulo e niente più. Lui ha risposto saltando insieme a loro, girandosi e ringraziandoli. Una volta fuori, però, è stata una cosa diversa. hanno capito lo stato d’animo di uno che, da ragazzo, non voleva nemmeno festeggiare i propri compleanni. Le celebrazioni gli piacciono sì, ma fino ad un certo punto. Come ad Allegri del resto, che lascia le chiavi della squadra in mano a Landucci, guardandosi il primo tempo seduto in panchina. I tifosi lo acclamano, lui risponde con la mano alzata. Un gesto rapido, perché non si è mai voluto prendere la scena, figuriamoci oggi.
Un silenzio surreale, dunque. Eccezione fatta per gli applausi a Lichtsteiner e all’esordiente Pinsoglio. Undici anni in meno di Buffon, a proposito. Giocava nelle giovanili bianconere quando Gigi ha messo piede a Torino nel 2001. Il Verona accorcia con Cerci, ma allo Stadium importa poco. Sono tutti in silenzio a guardare il loro Capitano che, faticosamente, sta proseguendo nel suo giro di campo. La voce torna tutta dopo, durante la premiazione. Buffon, ovviamente, è l’ultimo ad essere chiamato sul palco. Scendono tutti, quasi inchinandosi. Lui è pazzo di gioia, il sorriso è tornato anche ai figli in tribuna, disperati fino ad un attimo prima. Alza al cielo il nono Scudetto della carriera, dribbla l’esercito di steward come se fosse un attaccante. Vincente, spensierato, gratificato. Sorrisi tanti, lacrime il giusto. Proprio l’immagine che voleva lasciare. Proprio il modo in cui avrebbe voluto salutare.