Sorrentino, un anno dopo: “A tavola intuisco i rigori con le mie figlie”
Il 21 gennaio del 2020 Stefano Sorrentino dava l’addio al calcio giocato. Oggi studia da procuratore vicino a Pastorello, si gode la famiglia ed è vicino a lanciare un progetto: “Riguarderà i portieri”. Da CR7 ai compiti di matematica, diario post ritiro
C’è un tempo per tutto. Ce n’è uno per parare un rigore a Cristiano Ronaldo e uno per brindare al 2021 con una birra inviatagli da Leo Messi: “Le ha mandate a tutti i portieri a cui ha segnato, per ogni rete fatta contro ognuno. Buffon ne ha ricevute tre, qualcuno una dozzina, io una”. Schiuma di ricordi, il frutto di un Barcellona-Recreativo Huelva 3-0, stagione 2007-2008. Stefano Sorrentino quel rigore non riuscì a pararlo. Messi gol, CR7 no. “Quella parata allo Stadium è stata la ciliegina sulla torta della carriera. Mi piace vederlo come l’applauso all’uscita da 25 anni di campo. Anche se purtroppo anche lì finì 3-0”, racconta a gianlucadimarzio.com.
Era il 21 gennaio del 2019 e si giocava a Torino, la città in cui vive oggi. Due anni dopo quel giorno, 365 dopo l’addio al calcio. “La casa è diventata il mio nuovo spogliatoio. Solo che ora al posto dei compagni ci sono cinque donne: mia moglie Sara e le mie 4 figlie. Quando guardiamo le partite, si accendono sui rigori. Mi chiedono di indovinare dove tirerà chi li calcia. Ancora riesco a intuirlo. E loro mica credono all’istinto o alla lettura del corpo. Mi dicono cose tipo ‘vabbè ma lo sapevi’, ‘ma dai papà, lo conoscevi quello’. È difficile convincerle, ma è stupendo recuperare il tempo che ho lasciato per strada”.
Gli occhi della tigre ci sono sempre. E ora li ha messi su nuovi progetti: “Realizzerò presto qualcosa di importante e innovativo. È top secret, ma c’entrano i portieri”. Deviazione in corner e successiva uscita in presa alta. Rinvio e marcature preventive: “Sto preparando il mio futuro. E lo sto facendo accanto a un altro numero uno”. Non è un portiere, ma un procuratore. Da qualche mese, Stefano Sorrentino ha iniziato a collaborare con Federico Pastorello. Il suo agente di ieri e il maestro di oggi: “È come se fossi un tirocinante. Cerco di carpire tutto: la calma, la pazienza e il focus sull’obiettivo. Sempre col sorriso. È una persona fidata e leale, cose che fanno la differenza sempre”.
Si è tuffato anche in questo, mettendo la faccia. Non è un’uscita disperata, ma un inizio diverso. Studiare sempre, come faceva con i suoi avversari. “Ho anche preso il patentino da direttore sportivo. Voglio essere pronto su ogni fronte”. Porte aperte, paradosso del dopo carriera di uno che ha passato la vita a sbarrarle. “Quando mi sono rimesso i guanti a settembre per la partita del cuore – da portiere della Nazionale cantanti – mi ha fatto un effetto strano. Non li sentivo quasi più miei. E infatti – fino a quando è stato possibile – giocavo con gli amici a calcetto da attaccante”.
Un ritorno alle origini. Ai tempi di Bologna, quando giocava per fare gol. Era un bambino, figlio di un portiere. Poi le coincidenze lo hanno portato a seguire le orme di papà. Fino a chiudere un cerchio, tornando per qualche partita a fare il centravanti. Prima in seconda categoria con il Cervo, poi con il FC Torinese. La squadra allenata da suo padre Roberto, in Promozione: “Peccato che la pandemia abbia fermato tutto, mi stavo divertendo”.
Continua a farlo, deviando la nostalgia: “Non posso negare che mi mancano tante cose. La goliardia dello spogliatoio e i riti del giorno della partita. A volte mi comporto come se dovessi ancora giocare. Dico a mia moglie che dobbiamo pranzare, ma poi mi rendo conto che sono le 11 di mattina. Però godersi le domeniche a pranzo compensa tutto. Mi guardo intorno, vedo chi ho accanto e sono felice”.
Chiudere la porta di casa e aprire finestre sul mondo. O sulle passioni trascurate: “Durante il primo lockdown, mi ero messo a fare il cuoco. Poi stavo lievitando e ho virato su altro”. Oggi studia, fa l’opinionista in tv e osserva tutto. Soprattutto i suoi colleghi: “Mi piace tanto Silvestri, che era mio compagno al Chievo, ma anche Gollini è super. In generale vedo che sta crescendo una generazione di portieri forti, da Cragno a Sepe”. E non si ferma certo alla serie A: “Apprezzo molto Plizzari della Reggina e Confente a Catania. Ragazzi di grandi qualità”. Studio dei dettagli, analisi dei particolari. “Un portiere va visto nel suo insieme, ma la prima cosa da guardare è come reagisce dopo un errore. Chi indossa i guanti sa che quel momento arriverà, ma dopo c’è sempre una pagina vuota da riempire, scrivendola bene. Poi mi piace vedere come si riscaldano o come guidano la difesa. A volte sento parlare poco. Ecco, quello è un difetto. Bisogna comunicare sempre”. Stefano lo fa ancora, anche attraverso i social, veicolando iniziative e messaggi positivi.
Provare a essere un esempio, esercitando la sua leadership anche di fronte alla difesa a 4 con cui si cimenta ogni giorno: “Alle mie figlie cerco di trasmettere la voglia di combattere, di migliorarsi sempre. Qualsiasi cosa facciano”. Mettersi in gioco o magari prendere una sedia e mettersi accanto a loro: “Mi capita di aiutarle a fare i compiti. Ero bravo in matematica, ma ai miei tempi le divisioni si facevano in modo diverso. Ora hanno un metodo tutto loro. Cambia poco, perché poi alla fine conta il risultato”. Come sempre, come nelle 632 volte in cui ha messo i guanti e difeso una porta. Anche meglio di tutti, nella stagione 2009/2010, con la maglia del Chievo: “Un premio che guardo spesso con orgoglio perché venne dato dai colleghi e dai preparatori dei portieri”.
Stefano farà 42 anni a marzo. Sarà già primavera e magari anche il momento di quei viaggi che sono al numero uno della lista “cose che vorrei fare”. C’è solo da aspettare. Come quando l’arbitro fischia al momento del tiro di rigore. Piedi sulla riga, pronti a tuffarsi. Come due anni fa con CR7. Occhi della tigre, presto fuori dalla gabbia.