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Dall’alba al Rijeka: Napoli, il giorno dopo

Il risveglio è stato difficile. Il senso di vuoto generale dava l’impressione di poter inghiottire qualsiasi cosa. Napoli ha ricominciato la solita vita frenetica, della grande città, ma tra mille sospiri. Alle prime luci dell’alba, qualcuno si è diretto all’esterno del San Paolo, per cominciare la propria veglia personale. Tra i vicoli del centro storico, diversi s’impegnano a dare più azzurro e celeste alle strade, appendendo drappi e bandiere per lui con i colori che ha amato di più. E a cui, soprattutto, ha dato di più.


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Si forma una fila di giornalisti all’esterno del bar Nilo, dove c’è l’edicola votiva dedicata alla più laica delle divinità. “Ho aperto per voi” dice il titolare. A turno entrano le troupe. È scosso: la sua voce non trema ma fa fatica a descrivere la grandezza del sentimento. Gli chiediamo scusa. “No, ci mancherebbe. Mi state aiutando a sfogarmi dopotutto”. Percorrendo Spaccanapoli sembra di partecipare ad un unico discorso. C’è chi si sente afflitto, chi riflette sulla sua vita sregolata e chi poi immagina quanto avrebbe potuto dare ancora senza tutti quegli eccessi a Napoli, al calcio, al mondo. Ai Quartieri Spagnoli arrivano media da tutta Europa. Nel largo degli artisti, come è stato ribattezzato e dove sorge imponente il murale, c’è una folla mista. Gli uomini depongono in silenzio fiori e corone, le donne testimoniano davanti alle telecamere l’amore di una città intera.


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Un’anziana, su tutte, vestita di rosso, intona i cori tipici a lui dedicati. Qualcuno le chiede di rimanere: è la voce più gioiosa, perché ha fatto subito sua l’eternità dell’uomo. Ma si congeda sorridendo: “Mi dispiace, devo andare in chiesa adesso”. Il San Paolo diventa un santuario. Candele, maglie, sciarpe, striscioni e lettere si moltiplicano. Qualcuno già lo chiama “stadio Maradona”. All’esterno dell’altra sua casa, quella dove viveva in via Scipione Capece, ci sono una sciarpa, una foto e una lettera ad animare la cancellata bianca. Col passare del tempo, i tifosi si radunano sempre più numerosi. Le forze dell’ordine non si oppongono all’assembramento, ma si raccomandano: niente cortei. D’altronde, l’impressione è che anche così Napoli stia comunque reprimendo tanto del suo dolore.


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A ridosso della partita, i cori e i fumogeni restituiscono un’atmosfera che fino a qualche mese fa caratterizzava l’interno dell’impianto. Anche Lorenzo Insigne non resiste, dimentica lo status di calciatore e si concede un breve omaggio tra la gente prima di prendere la via degli spogliatoi. Chi più di lui: capitano, napoletano, tifoso. Poi Fuorigrotta si sfolla, molti rientrano per poter guardare la sfida col Rijeka, la cui importanza è chiaramente ridimensionata. Ma è un atto di fede, alla fine, e in questo i napoletani hanno costruito miti e anche qualche successo. 


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Gli schermi, che generalmente riportano punteggio e minuti, hanno proiettato il suo volto come aveva già annunciato De Laurentiis. In campo ci sono un Diego (Demme) e un Armando (Anastasio), uno per squadra. Come a voler dire che, in fondo, è un patrimonio di tutti. I calciatori del Napoli entrano tutti con una numero 10 addosso, si stringono nel minuto di raccoglimento. Il silenzio è surreale perché nello stadio è osservato da troppe poche persone, ma dall’esterno si avverte la stessa cura nel rispettarlo. Politano segna, ma non esulta; Lozano ci mette invece un po’ più di trasporto quando raddoppia. Ma è un’occasione per abbracciarsi tutti, e i giocatori non la perdono. 

Chi indossa questa maglia percepisce un’essenza diversa, di cui è intrisa da anni. Lo sa bene Insigne, che si dispera quando vede che la palla proprio non vuole entrare. Avrebbe voluto dedicargli un gol, alzare quella maglia al cielo per rendergli omaggio. Avrà sicuramente altre occasioni. Adesso la notte più lunga è ormai alle spalle, ne seguiranno altre difficili. Ma passerà. Le ascese di questo tipo, in fondo, hanno sempre richiesto un po’ di tempo prima di essere comprese.