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Omar De Felippe: la Guerra delle Malvinas, il mago delle promozioni e lo sputo di un suo tifoso

Tutto è precipitato, nella notte di Liniers. Il Vélez ha perso contro l’Unión la quarta partita su otto giocate in Superliga, un tifoso ha sputato addosso al dt Omar De Felippe e il sipario è calato mentre il presidente Gámez, all’ultima partita casalinga della sua gestione, provava a trattenere sulla panchina del Fortín il suo allenatore. Invano: “No lo merezco” ed ecco ratificate le dimissioni di De Felippe.

Un allenatore con una storia differente, per questo abituato a ricevere un trattamento differente: qualsiasi sia lo stadio in cui allena la domenica, c’è sempre un gruppo di uomini oltre la cinquantina che lo saluta e lo incita. Sono i reduci delle Malvinas, che come lui hanno combattuto nell’Atlantico Meridionale nel 1982. Ne trova ovunque, da Corrientes a Córdoba, da Buenos Aires a Santa Fe, tutti a far il tifo per chi, come loro, ha affrontato la vita a testa alta dopo aver vissuto il dramma della guerra.

De Felippe si ritrovò sul fronte senza quasi accorgersene: il 3 aprile 1982 festeggiava il suo ventesimo compleanno, il 10 era in uniforme a Puerto Argentino (oggi, purtroppo per Buenos Aires, Port Stanley), e a maggio aveva già il terrore e il freddo nelle ossa. Si rifugiò nei pozzi, vide morire compagni, svaligiò delle case insieme ai commilitoni per non morire di fame, ma soprattutto si irrigidì nei confronti della realtà che lo circondava, per poterla sopportare. Quando l’incubo finì, lui e altri reduci vennero raccolti alla base di Campo de Mayo, dove rimasero 48 ore a mangiare asado no-stop, senza posate e con ancora addosso la sensazione di precarietà dal conflitto.

Una volta tornato a casa, iniziò il secondo grande problema della guerra: convivere con il ricordo. A questo proposito il calcio fu determinante: l’Huracán gli diede la possibilità di iniziare una discreta carriera da professionista, proseguita all’Olimpo, al Villa Mitre e all’Once Caldas. I primi anni furono ugualmente complicati. Un giorno, ad esempio, un ragazzo andò a cercarlo al campo d’allenamento del Globo. Si presentò come il fratello di un suo compagno d’armi caduto alle Malvinas e gli chiese un favore doloroso per entrambi: lo supplicò di raccontargli i dettagli della morte del fratello. Anche i giornalisti gli chiedevano spesso di testimoniare ciò che aveva vissuto su quelle isole, ma al giovane Omar pesava molto riaprire un argomento così doloroso. Un cameraman lo notò e gli disse: “Non prenderla male, ma è giusto che a testimoniare sia chi ha vissuto la guerra, non altri”.Con il tempo iniziò a parlare più facilmente dei suoi mesi nel sud dell’Atlantico.

La sua dimensione nel mondo, però, diventò la panchina: dopo l’inizio da vice del Ruso Zielinski al San Telmo, in B Metropolitana, diventò un mago delle promozioni: riportò in Primera Olimpo, Quilmes e Independiente, prima di vincere un campionato ecuadoriano all’Emelec. Per uno con i suoi successi e il suo passato, l’apodo venne spontaneo:El Soldado del buen juego.

di Federico Raso – Tre3Uno3