Questo sito contribuisce all'audience di

Le aspettative e la maglia n.10, un papà ingombrante e i “no” ai prestiti. Roma ora sì: ecco il vero Gerson

“Ehi,
questa è la maxi storia di come la mia vita è cambiata, capovolta
sotto sopra sia finita”. Da Bel Air a Firenze il passo è piuttosto
lungo, circa 10.000 km. Ma nel pomeriggio piovoso del Franchi, il rap
scanzonato di un giovane Will Smith piacerebbe anche a Gerson,
amante della musica e definito da tutti come “il più bravo
ballerino di Trigoria”. C’è tanto della sua vita romanista in
quelle strofe ironiche. Un biennio pieno di aspettative, sliding
doors e occasioni sfumate. Oggi con i due gol alla Fiorentina – i
primi in Italia – il brasiliano ha regalato la vittoria alla Roma, la
dodicesima consecutiva in trasferta, sfatando anche un tabù
personale lungo due anni. L’unico e ultimo gol ufficiale in
carriera era datato 1 novembre 2015. Giocava in Brasile, era ancora,
solamente, un giovane ragazzo di belle speranze del Fluminense.

L’investimento, le aspettative e quella maglia n.10

Due
anni, sembra una vita. Una vita di anonimato, di acuti sperati e mai
realizzati. Una vita giallorossa riconquistata con le unghie e il
lavoro, dopo un avvio da mille e una notte. Era l’agosto del 2015
quando Sabatini decise di spendere circa 18 milioni di euro per il
suo cartellino. Tanti report e poche presenze con la maglia Flu Flu
bastarono all’ex diesse giallorosso per definire il suo acquisto,
battendo la concorrenza di tantissime big europee. Dalla Juventus al
Barcellona, che aveva messo più di un occhio sul ragazzo. Per mesi
si parlò di una clausola economica in favore dei blaugrana nel caso
Gerson avesse vinto il Pallone d’Oro. Alla fine non se ne fece nulla,
ma il solo paventare un’ipotesi simile accrebbe ancora di più l’aura
attorno al ragazzo. “E’ un crack”. “Il nuovo Falcao”. I
titoli sui giornali si sprecavano, così come l’amore di Walter
Sabatini. Un’infatuazione grande tanto quanto la maglia numero 10
della Roma. “Serviva
per convincere il ragazzo”
,
disse allora l’ex diesse, giustificando il pacco regalo inviato a Rio
de Janeiro. La foto del brasiliano con quella maglia e quel numero
fece storcere più di qualche bocca. Si sa, a Roma la 10 è e sarà
per sempre solo di una persona. Ma Sabatini aveva voluto fare all-in.
Il talento c’era, la concorrenza anche. E nel calciomercato vale
tutto.

Da “crack” a “pacco”

Dopo
l’acquisto la Roma lo lasciò al Fluminense fino a gennaio, quando
finalmente sbarcò nella capitale. L’idea era ben chiara dalle parti
di Trigoria: sei mesi in prestito per farlo ambientare e poi il
ritorno alla base. Lo hanno fatto tanti brasiliani. Da Julio Cesar a
Mancini, inutilizzato al Venezia ed esploso con la maglia
giallorossa. Peccato che tra il dire e il fare ci fu di mezzo il…
padre. Presenza ingombrante quella di Marcos
Antônio Silva, che si oppose al prestito al Frosinone, obbligando la
Roma a rispedirlo in Brasile. Gli slot per gli extracomunitari erano
finiti e sei mesi di soli allenamenti, per la Roma, non era
un’operazione di crescita percorribile. Rio de Janeiro – Roma –
Rio de Janeiro. Il primo anno italiano di Gerson fu questo. Trattato
quasi come un pacco, in una tremenda similitudine tra quel famoso
regalo e l’accezione più negative del termine.

Colpa di Spalletti o immaturità?

Regali
che Gerson non voleva nemmeno da Spalletti, solo maggiore
considerazione. Si aspettava solo questo il brasiliano, praticamente
bocciato dall’ex allenatore giallorosso. Complice, si dice, un atteggiamento troppo presuntuoso. A fine anno furono solo 11 le presenze, 5 dal
primo minuto, con l’acuto (negativo) della maglia da titolare nel big
match dello Juventus Stadium. Troppo per il 19enne brasiliano,
lanciato nella mischia con compiti tattici ben precisi, in un ruolo
mai ricoperto in carriera. Il disastro era dietro l’angolo e così
fu: 45′ di nulla, totalmente dominato da Alex Sandro. Era il dicembre
2016, fu l’ultima presenza in campionato. A gennaio la strada del
prestito sembrava l’unica soluzione per far esplodere un talento tale
ancora solo sulla carta. E il Lille era pronto ad accoglierlo a
braccia aperte. 5 milioni di prestito, 13 di riscatto. Un’operazione
praticamente chiusa che saltò l’ultimo giorno di mercato. Motivo?
Papà Marcao, ovviamente. Ennesima sliding door, ennesimo nulla di
fatto, pagato a caro prezzo nei sei mesi successivi.

Di Francesco e la maturità

Quest’anno
la rinascita. Coccolato, ma non viziato, fin dal ritiro di Pinzolo,
Gerson è diventato per Di Francesco la sfida più grande da vincere.
Trasformare una scommessa in un giocatore vero. Partendo dalle basi.
Definire il suo ruolo, trasformarlo in un giocatore importante
facendo sbocciare quel talento tenuto nascosto. In tre mesi Di
Francesco è riuscito a fare tutto questo. Mezz’ala di gamba e testa
come ruolo naturale, ala destra di tecnica e gol quando serve. Ormai
Gerson non è più il giovane da inserire a fine gara, il talentino
da far crescere nelle partite “facili”. Gerson è un titolare
della Roma, così come gli altri 20. E non a parole, ma con i fatti.
Già nove presenze in stagione, due gol e una presenza in campo non
più da comprimario. Merito dell’allenatore, complice un ragazzo
finalmente maturo e pienamente adattato al calcio italiano. “Lo
scorso è mancato qualcosa, probabilmente non ero ancora pronto e non
avevo fatto ancora quel passaggio dal calcio brasiliano a quello
italiano. Quest’anno ho iniziato con una testa completamente
diversa e adesso riesco a esprimere tutte le mie potenzialità.
Mister Di Francesco mi ha parlato tanto fin dall’inizio, sento la
sua fiducia”,
l’ammissione
a fine gara. Con due anni di ritardo la Roma scopre Gerson. Il 20enne