“L’Aldilà? Spero solo che ci sia una squadra dove poter ricominciare a giocare”. Addio ad Angelillo, figlio di un Carnicero e dell’Argentina
Il suo estro, così efficace, così elegante, aveva fatto impazzire anche Gianni Brera, uno che non regalava complimenti. “Fatemi vedere Angelillo controllare un pallone bozzuto e poi coordinarsi come per un passo di danza. Avrò incolpevoli reazioni alla Marcel Proust. Antonio Valentin encanta a todos!”.
Antonio Valentìn Angelillo era un calciatore che sembrava venire da un altro mondo. E ci aveva messo poco a diventarlo. In realtà era proprio il posto in cui era stato scoperto ad averlo reso speciale. Era nato lì vicino nel Barrio Parque Palcios nel 1937, figlio unico di Soledad e Antonio. Suo padre faceva il macellaio ed era arrivato in Argentina pochi anni prima, seguendo la famiglia partita da Rapone, provincia di Potenza. Basilicata coast to coast, ma dall’altra parte del mondo.
Antonio Valentìn era cresciuto giocando per strada e ascoltando il tango di Gardel. I genitori lo volevano ingegnere, lui studiava per fare il musicista: suonava il bandoneòn, la fisarmonica che si tiene fra le gambe. Poco dopo la sostituì con un pallone e con quello strumento fra i piedi iniziò a far ballare le difese. Da solista ma soprattutto all’interno di un’orchestra. Tutti giovani, tutti fortissimi: Corbatta, Cruz, Maschio e Sivori. Fossero nati in Inghilterra li avrebbero chiamati “fab five”, là divennero “angeles con caras sucias”. Ovvero ‘angeli con la faccia sporca’. Un soprannome che veniva dal cinema e che un massaggiatore argentino affibbiò ai ragazzi dopo una partita dominata nel fango. Era la metà degli anni ‘50 e l’Argentina aveva un gruppo di stelle dal volto austero che lasciava senza fiato. Vinsero una Copa America nel ‘57, dominando. Avevano vent’anni o poco più. In quelle sei partite, Maschio segnò nove reti, Angelillo otto, Sivori sette. Avrebbero fatto la storia se non si fossero divisi. Ma dopo quel torneo, loro tre decisero di venire a giocare in Italia, rispettivamente a Bologna, nell’Inter e nella Juve. L’Argentina, che da un paio d’anni aveva ribaltato Peròn ed era sotto un regime dittatoriale e profondamente autarchico, non tollerava la fuga dei suoi talenti. I tre angeli dalla faccia sporca volati oltre oceano non furono più chiamati in nazionale. E nel mondiale di Svezia ‘58 videro da lontano la disfatta albiceleste.
Pazienza, perché intanto in Italia i figli o nipoti della nostra emigrazione erano tornati per spiegare calcio. E Angelillo ci aveva messo poco a prendere le misure della Milano nerazzurra. Una buona stagione d’esordio, poi una da record: 33 gol in 33 partite. Un tornado. I tifosi gli avevano dedicato un coro, sull’aria di un pezzo di Tony Dallara. “Chi sei tu Valentin, che fai tremar tutti i terzin”. Giocava, segnava e ballava.
In campo e fuori. Perché intanto si era innamorato. Di una ragazza che cantava in un night milanese, un posto che esiste ancora: il “Porta d’oro” in piazza Diaz. Lei si chiamava Attilia Tironi, ma per tutti era “Ilya Lopez”. Notti di amore e di dolce vita, anche per cancellare il dolore della perdita del padre.
Una relazione che il presidente Angelo Moratti tollerava, a differenza del nuovo allenatore Helenio Herrera: no all’indipendentismo in squadra. Tutti in silenzio e umilmente asserviti al gruppo, mentre Valentin la lingua l’aveva biforcuta e la risposta più che pronta. Niente di più dannoso per l’incantesimo del Mago.
E così dopo quattro stagioni, 77 gol e innumerevoli cuori infranti, fu venduto alla Roma per 270 milioni. E la città che Fellini rese Capitale della Dolce Vita, non poté che far sentire Antonio Valentin a casa.
Diede tutto per quella maglia, arretrando la sua posizione in campo, senza mai risparmiarsi. Altri quattro anni, due trofei vinti e in mezzo un paio di presenze da oriundo in maglia azzurra.
L’avvocato Agnelli provò a portarlo a Torino ma una clausola anti Juve inserita dall’Inter nella cessione alla Roma glielo impedì.
La sua carriera declinò, restò il tempo per uno scudetto col Milan nel ‘68 da bomber di rincalzo. Fino all’ultima esperienza in B col Genoa, quasi a chiudere il cerchio partito dalla Boca.
Da lì una nuova carriera da allenatore e una nuova vita privata: ad Assisi, dove conobbe Bianca, la donna che diventò moglie e madre dei loro due figli.
Anni di peregrinazioni sulle panchine delle serie minori, lontano dai grandi palcoscenici. L’esperienza migliore ad Arezzo, all’inizio degli anni ‘80, nella città in cui scelse poi di vivere: salvezza miracolosa in C, promozione in B e Paradiso sfiorato la stagione successiva.
Allenò ovunque, fino ad arrivare alla nazionale del Marocco. Poi all’inizio degli anni ‘90 la nuova veste di osservatore per l’Inter di Moratti, il figlio di Angelo, l’uomo che lo aveva portato in Italia. Scoprì Zanetti e Cordoba, per poi ritirarsi ad Arezzo.
È morto venerdì notte in ospedale a Siena, ma la famiglia lo ha comunicato solo poche ore fa. Lontano dai riflettori, lontano da tutto.
“Non me lo immagino l’Aldilà, spero solo ci sia una squadra in cui poter ricominciare a giocare. Magari con i miei amici di una volta”, disse qualche anno fa.
Forse sta già palleggiando con El Cabezòn Sivori, chissà. O magari si starà chiarendo col mago Herrera.
Buon viaggio, angelo dalla faccia sporca e dal talento infinito. Col pallone sotto braccio e un tango in sottofondo.
A cura di Claudio Giambene e Alice Nidasio