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365 giorni dopo l’arrivo del general manager alla Roma, un bilancio del suo primo anno in giallorosso

Chissà se Tiago Pinto ci tiene alle ricorrenze, o alla numerologia. Ma è curioso come il general manager della Roma abbia voluto regalare a Mourinho l’acquisto di Maitland-Niles proprio nel giorno del suo “primo compleanno” in giallorosso.

Il 4 gennaio 2021 fu ufficializzato il suo arrivo alla Roma. Oggi, un anno. Un numero, il quattro che ricorre anche nel momento più alto della sua giovane gestione sportiva: l’ingaggio di José Mourinho. Quel giorno di maggio è ancora, a distanza di otto mesi, indelebile nel cuore dei tifosi e una medaglia che la famiglia Friedkin e lo stesso Tiago Pinto portano orgogliosamente al petto.  

 

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Un anno lungo quello del portoghese, pieno di tutto quello che la piazza di Roma può offrire. L’entusiasmo travolgente dopo l’arrivo di Mourinho, l’adrenalina di un Van scosso dall’amore dei tifosi, vissuta gomito a gomito con il nuovo acquisto Abraham. Ma anche le continue pressioni di una piazza ambiziosa e stanca di guardare le altre squadre vincere.

Così come i tanti problemi sorti in dodici mesi: dal Covid al suo arrivo, al patatrac in Coppa Italia con lo Spezia passando per la lunga querelle Roma-Dzeko-Fonseca durata molti, troppi mesi. Un ventaglio gestionale da affrontare sempre a 100 all’ora e da far convivere, volente o nolente, con l’unico tangibile – e comprensibile – metro di giudizio del tifoso: il calciomercato. 

 

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Ma all’interno delle responsabilità di una figura apicale così importante in una società calcistica rientrano una serie lunghissima di altre situazioni, poco pubblicizzate, appetibili e anche meno calcistiche, ma altrettanto importanti. Da rivoluzionare. Perché il diktat dato a Tiago Pinto dalla famiglia Friedkin è stato chiaro.

A partire dalla completa rifondazione dell’area sportiva, negli ultimi anni troppo frammentata e pericolosamente autonoma rispetto alle strategie aziendali. Esempio, negativo, che fece infuriare la famiglia Friedkin fu la trattativa Smalling con il Manchester United nell’autunno 2020. Con il brivido finale che stava per far saltare l’intera operazione. Una situazione, anche di imbarazzo, che la proprietà americana segnò in rosso sull’agenda delle cose da cambiare. 

 

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Mandato in mano ad una figura di fiducia con poteri chiari assegnati dalla proprietà. Una rivoluzione nascosta, ma tangibile dentro Trigoria, durata un intero anno. Seguendo i quattro comparti sportivi della società Roma: prima squadra e dipartimenti a supporto (match analyst, medical, performance, scouting), il settore giovanile e la squadra femminile data in mano a Betty Bavagnoli. Una rivoluzione in termini di uomini, mansioni e responsabilità che ha ridato ordine al settore sportivo seguendo la strategia unica della Società.

 

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Una direzione che ovviamente riguarda anche il campo e quel famoso calciomercato, insieme alle vittorie, unico termometro esterno dell’andamento di una squadra di calcio. E anche qui la linea tracciata da Tiago Pinto è visibile. Probabilmente ancora ingiudicabile, parafrasando Mourinho “il giudice ultimo è sempre la classifica finale”. E alla fine del primo campionato con il portoghese mancano 5 mesi, ma la Roma in due sessioni di mercato ha abbassato l’età media della prima squadra, diminuito sensibilmente un monte ingaggi – insostenibile senza la Champions League – e indirizzato meglio i propri sforzi economici con i calciatori.

 

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I pilastri della squadra hanno contratti lunghi e non sono sul mercato, i giovani sono parte integrante della prima squadra, non corredo in fase di allenamento – Felix è solo l’ultimo fulgido esempio –  e gli acquisti, anche onerosi, vengono calibrati assecondando le richieste dell’allenatore.  Così come le cessioni, sempre indirizzate ad un realizzo economico della società a breve termine, senza lungaggini contrattuali spesso trasformate nel tempo in macigni ingestibili. Nzonzi, Pastore, passando per Under e Pau Lopez sono solo alcuni esempi. 

 

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Solo teoria? Mera pratica commercialistica? Per certi versi lo è, come è normale lo sia per una società per azioni. Ma il lavoro di un general manager passa anche per decisioni che esulano dal campo, dall’acquisto di questo o quel giocatore. Per costruire quelle fondamenta strutturali che danno stabilità e futuribilità ad un intero progetto sportivo. Il core business rimane il campo, le vittorie e i trofei. A Trigoria nessuno si nasconde. E la scelta di Mourinho a maggio è andata esattamente in quella direzione.

La volontà in casa Roma è accelerare il processo di crescita, imparare dall’allenatore portoghese a vincere con un progetto a medio termine. Un anno può essere abbastanza per osservare le differenze con il passato, ma anche un tempo giusto per dare un primo giudizio sull’operato. Si è fatto tanto, ma tanto altro c’è ancora da fare. A partire dalla squadra, regalando altri calciatori “degni di José Mourinho”. Lo ha promesso lui stesso quando presentò l’allenatore. Lo aspettano i tifosi e lo stesso allenatore portoghese.