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Trent’anni fa oggi la Sampdoria salì sul tetto d’Italia. Un’impresa unica, ma non casuale.

Una favola, destinata a resistere al trascorrere del tempo. Una storia lontana trenta lunghissimi anni, eppure così presente nel cuore di chi ama correre dietro ad un pallone. Le tinte? Indelebilmente blucerchiate. É la favola della Samp d’Oro: quella del ‘padre’ presidente Paolo Mantovani, dei ‘gemelli del gol’ Vialli e Mancini. Del Direttore scopri talenti Paolo Borea, e del ‘maestro’ Vuja(din Boskov).

Tra il Milan olandese di Gullit e Van Basten, il Napoli argentino di Diego Armando Maradona, l’Inter tedesca di Matthaeus e Brehme e la neo Juventus del Divin Codino Roberto Baggio: ad arrivare più in alto di tutti, e a toccare il cielo con un dito, il talento e l’incoscienza. La sfrontatezza e la ragione. Il cuore e la testa. Forse più il primo, perché a pensarci bene per compiere certe imprese, sulla bilancia, l’ago deve per forza pendere un pò di più da quella parte. Quella che si tramanda da ormai tre decenni è la storia di Davide contro Golia, semplicemente la storia della Sampdoria: l’ultima favola moderna di casa nostra, trenta ‘ragazzi’ letteralmente cresciuti assieme, capaci di conquistare un titolo tanto storico quanto unico. Unico, in tutti i sensi. Numeri e albi alla mano, perché quello conquistato nella stagione 1990/91 resterà l’unico tricolore della storia della Sampdoria. Capace di vincere 4 Coppa Italia, una Super Coppa Italiana. Una Coppa delle Coppe, nella magica notte di Göteborg, di accarezzare soltanto invece la coppa dalle grandi orecchie, l’attuale Champions League stagione 1991/92, per i nostalgici l’allora ancora Coppa dei Campioni. Lo scudetto? Ultima vittoria di una ‘piccola’ in mezzo allo strapotere delle grandi: questione di numeri, che raccontano di come nei trent’anni a venire il tricolore fu discorso per pochi intimi.

 

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14 quelli conquistati dalla Juventus. 7 dal Milan. 6, l’ultimo in ordine di tempo quello firmato Antonio Conte poche settimane fa, portati a casa dall’Inter. Uno a testa invece per Lazio e Roma, a passarsi il testimone all’alba del terzo millennio nella capitale. Tre squadre, più due a rubare la scena soltanto per un anno a testa, a dividersi trent’anni: che non hanno però tolto la magia ad un traguardo unico, anche e soprattutto per come é stato raggiunto. Grazie ad un senso di appartenenza fuori dal comune: “Andavamo a dormire col pigiama della Samp – racconterà poi Gianluca Vialli ricordando quegli anni – perché per noi quella della Sampdoria era davvero una seconda pelle”. Ad una ‘chiusura’ tipica di una città, Genova, palcoscenico ideale di questa splendida favola: capace per natura di isolare un gruppo di amici pronto a battersi contro lo strapotere delle grandi metropoli, Torino e Milano su tutte. Uno scudetto, quello del 19 maggio 1991, arrivato al termine di un percorso di crescita collettivo: il gruppo prima dei singoli, la Sampdoria prima dei suoi calciatori. Dai giocatori ai dirigenti, passando per ogni protagonista di quell’incredibile storia: una crescita continua e comune. Molti dei giocatori entrarono alla Sampdoria ragazzini, per poi diventare uomini.

 

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DA PAGLIUCA A CEREZO: LA SAMP D’ORO DI PAOLO (BOREA)

Primi a dar forma a quel gruppo Luca Pellegrini, arrivato quando la squadra giocava in Serie B. Erano i primi anni ottanta, ne bastarono due per riportare il Doria in Serie A. Il regalo per il ritorno tra i grandi? Aveva il nome e il cognome di colui che – al pari di Gianluca Vialli – più di ogni altro avrebbe segnato la storia del club. Quel ragazzino di Jesi che, con nove reti e tante giocate, aveva tenuto vive le speranze del Bologna retrocesso all’ultima giornata: è l’estate del 1982, quattro i miliardi che servirono a Paolo Mantovani per aggiudicarsi il talentino ex Bologna Roberto Mancini, città che alla Samp d’Oro regalò un altro tassello fondamentale per lo scudetto. Quel Paolo Borea, capace nel ruolo di direttore sportivo, di costruire la squadra che arrivò più in alto di tutti. Zero casualità, tanta logica, fiuto per i talenti e soprattutto tanto lavoro. Costruita mattone su mattone, e plasmata attorno ai suoi due gioielli Vialli e Mancini: alla Sampdoria in porta nel 1987 arrivò il giovane Gianluca Pagliuca, che aveva fatto innamorare Mantovani un anno prima maglia della Sampdoria Primavera sulle spalle al torneo di Viareggio.

 

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“Borea lei mi deve fare un regalo, comprare quel ragazzo” le parole del presidente svelate anni dopo dall’allora ds. Considerato un po’ troppo esuberante a livello giovanile, Borea riuscì a portarlo a Genova per 250 milioni delle vecchie lire. Davanti al numero uno dello scudetto, al centro della difesa lo ‘zar’ Pietro Vierchowod, arrivato in blucerchiato quattro anni prima. Fosforo e giocate in mezzo al campo erano affidate ai piedi di Toninho Cerezo (arrivato dalla Roma nel 1986) e Beppe Dossena (via Udine nel 1988): “Lei Borea e’ il miglior ds del mondo” diceva del braccio destro di Mantovani il centrocampista brasiliano. Campione dentro e fuori dal campo, con un solo difetto: “La forse troppa attenzione al denaro. – raccontò Borea in un’intervista a 1000cuorirossoblu – Non sapeva però che trattare con Mantovani era impossibile o quasi e quando andai a Roma a definire il suo acquisto ero autorizzato ad offrire 600 milioni, lui subito rispose che erano pochi, troppo pochi. Mantovani, che in affari era una volpe, gli mandò una secca risposta: se firmi oggi sono 600, se firmi domani sono 550 milioni. Tirarono per le lunghe e Cerezo arrivò alla Samp per 500 milioni di ingaggio”. E sei anni di contratto. Uno solo, invece, è bastato al motore della Dinamo Kiev Oleksij Mikhailichenko per diventare Campione d’Italia a Genova e poi salutare direzione Glasgow (Rangers).

Alla corsa, invece, ci pensava Attilio ‘Popeye’ Lombardo, che a Genova arrivò nel 1989. E’ il 1984 quando Mantovani decide di regalare a Mancini la spalla ideale di una vita: nello scambio col ‘Marziano’ Alviero Chiorri Luca arriva alla Samp per fare il suo esordio in Serie A proprio contro la sua ex Cremonese. Il resto è storia nota: 141 gol realizzati in 328 partite giocate, 19 quelli messi a segno nell’anno dello scudetto (valsi il titolo di miglior marcatore della stagione) e l’etichetta di Gemello del Gol di Roberto ‘Bobby Gol’ Mancini. Stelle di una squadra che non avrebbe potuto fare a meno nemmeno di Pari e Mannini, del secondo portiere Nuciari. Del genovese (unico e sampdoriano) Marco Lanna, di Ivano Bonetti, Srecko Katanec, Invernizzi, Branca. E poi Dall’Igna, Mignani e Calcagno. Dal primo all’ultimo, stelle e gregari a cooperare, tutti pezzi fondamentali di un unico e storico puzzle.

IRONIA E RISPETTO: LA RICETTA DI ZIO VUJA(DIN BOSKOV)

Incaricato di far combaciare ogni singolo pezzo, di miscelare ed amalgamare sapientemente ogni elemento del gruppo, di trasformare la Samp da bella e incompiuta a squadra vincente, mister Vujadin Boskov, vero e proprio collante di quella squadra unica. “Più che un allenatore era un padre. – ha raccontato a GianlucaDiMarzio.com Pietro Vierchowod – Non è che ci imponesse le cose, però ce le faceva sembrare obbligatoriamente piacevoli. La sua forza più grande era la gestione del gruppo. Boskov ascoltava sempre i suoi ragazzi, facendo sentire tutti partecipi. Anche se alla fine decideva lui. Una volta in occasione di una partita importante la squadra voleva che giocasse Toninho (Cerezo): lui disse “va bene, se la Samp vuole così metterò Toninho”. Prima della partita fui io a dirgli di stare tranquillo perché sarebbe partito dall’inizio. Dieci minuti prima di entrare in campo, quando l’allenatore era solito consegnare le maglie, quella di Cerezo la diede a Katanec. Toninho venne da me, un po’ arrabbiato: cosa potevo dirgli se Boskov aveva cambiato idea all’ultimo? Vincemmo grazie ad un gol di Katanec, a fine stagione conquistammo lo Scudetto”.

 

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L’imprinting dell’ex blucerchiato (a Genova giocò un anno tra il 1961 e il 62), l’esperienza da globe-trotter del pallone (dalla Serbia all’Italia, passando per Svizzera, Olanda e Spagna): lo ‘Zio Vuja’, famoso per le sue battute memorabili, nonostante lo spirito da nomade del Fudbal, con un calcio semplice e antico (libero e marcature a uomo nell’era della rivoluzione Sacchiana) riuscì a fermarsi a Genova quanto bastò per trasformare l’impossibile in possibile, grazie a quel suo capolavoro assoluto chiamato scudetto, arrivato al termine di una stagione forse irripetibile, di sicuro indimenticabile. Laureato in Storia e Filosofia, con studi anche in Psicologia: Boskov era un uomo intelligente, furbo e colto. Arrivato dal Real Madrid (guidato pochi anni prima), impossibile non avesse anche una mentalità vincente: la stessa che riuscì a infondere in un gruppo giovane come quello della Samp. Sbarcò in una realtà di ‘provincia’, giovane di nascita e di vittorie.

Lui le insegnò a misurarsi con squadre europee già dai ritiri estivi, abituandola a quello che sarebbe poi diventato il suo habitat naturale. Consapevolezza. Questo portò a Genova Vuja: la capacita di riconoscere e credere nelle proprie possibilità, di andare oltre i propri limiti. Il tutto, con l’immancabile ironia: “Scendete in campo e sparpagliatevi” le ‘indicazioni’ ai suoi giocatori prima di scendere in campo. “Rigore è quando arbitro fischia” il commento ad un fallo in area negato o concesso. Nessun dramma in caso di sconfitta: “Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0″. Tutte qualità che convinsero a puntare su di lui, il vero artefice della Favola Sampdoria.

PADRE ATTENTO E PRESIDENTE VISIONARIO: PAPÀ’ PAOLO (MANTOVANI)

Quel presidente romantico che, assieme a Vujadin Boskov e Paolo Borea, fece della Sampdoria una Samp d’Oro. Romano di nascita, ma genovese d’adozione, il petroliere prestato allo sport si era innamorato – come recita lo slogan della Samp: – dei ‘colori più belli del mondo’: “Perché proprio la Sampdoria? Nessuno mi ha mai chiesto perché ho scelto mia moglie tra le tante. E qui a Genova c’erano appena due squadre…”. Letteralmente innamorato della sua creatura, presa in Serie B e riportata subito nel calcio che conta. Garbo e durezza. Modi affettuosi, ma severi. Passione feroce e lucida programmazione. Testa al presente, ma sguardo sempre rivolto al futuro: Mantovani impose regole ferree ed un modello funzionale.

“Mantovani era di un’altra galassia, un genio. Capiva le cose dieci anni prima degli altri, era un presidente perfetto. – il ricordo negli anni di Roberto Mancini – Hanno scritto che per me è stato un secondo padre e che io ero diventato per lui il quinto figlio. C’è del vero, lo dico con rispetto verso mio padre e i suoi figli. A chi mi domanda cosa aveva di speciale il presidente rispondo: il rispetto verso tutti. Non alzava mai la voce, ma bastava uno sguardo, quando era scontento, per capire che si doveva cambiare registro”. “Per noi aveva sempre tempo, era una guida, era un supporto, potevamo discutere di tutto, di calcio certamente ma anche di ragazze (argomento di cui parlavamo sempre volentieri), di sogni e di progetti. – a fargli eco nel tempo è il gemello del gol Luca Vialli – Sì, perché quando hai vent’anni hai bisogno di sostegno come una barca ha bisogno di un timone e lui era lì, sempre, pronto a dispensare consigli, quelli giusti”.

 

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Una visione d’insieme che portò ad una congiunzione unica, maturata sotto il pontificato di Paolo VII (come venne soprannominato dai tifosi): presidente poi, prima ancora padre di quel gruppo di giovani calciatori. Amati come suoi figli, amato a sua volta amato come un secondo padre. Se quell’epoca d’Oro durò poi quasi dieci anni, il merito fu certamente suo, capace di rispondere alle avance delle big per i suoi gioielli, sempre in mostra ma mai in vendita: fu la riconoscenza, nei confronti di un ‘padre’ che li aveva fatti davvero sentire suoi figli, il motore che spinse i giocatori a rifiutare più volte contratti faraonici. Portati a Genova ragazzini, erano stati lasciati crescere coi tempi giusti, come uomini e come campioni: nel nome di Paolo e dei suoi valori, quelli che hanno permesso di scrivere le pagine più belle della storia della Sampdoria.

LUCA VIALLI & BOBBY GOL: GEMELLI (DIVERSI)

Icone e simbolo di quel gruppo, due ragazzi cosi diversi eppure così affini. Uno esplosivo, l’altro riflessivo. Rovesciate e capriole da una parte, colpi di tacco e genio dall’altra: 20 anni Luca, 17 anni Roberto. Vialli e Mancini a Genova sono arrivati ragazzini per diventare uomini. Uniti, indivisibili, nelle gioie, anche e soprattutto neL dolore: come quello manifestatosi sotto forma di delusione comune per la sfortunata avventura azzurra ad Italia ‘90. Mancini in tribuna, Vialli alle prese con guaii fisici che lasciarono spazio alle notti magiche e agli occhi sgranati di Totò Schillaci. Delusione, risarcita con gli interessi soltanto un anno più tardi, quando l’alchimia e la voglia di rivincita dei due blucerchiati portò alla conquista di uno Scudetto indimenticabile. 

Non solo per il risultato sportivo, ma per la realizzazione di un sogno. Immagini e pensieri plasmati a realtà, attraverso il duro lavoro e ad un pizzico di follia: nel credere alle parole del ‘visionario’ Mantovani, all’opera di consapevolizzazione del Maestro Vuja. Nel mezzo, le cene del giovedì del circolo esclusivo dei sette nani: Cucciolo (Mancini),  Pisolo (Vialli), Eolo (Mannini), Dotto (il d.s. Borea), Mammolo (il Responsabile delle Giovanili Arnuzzo), Brontolo (il tecnico del settore giovanile Soncini) e Gongolo (l’addetto all’arbitro Montali). Nella parte di Biancaneve, Edilio Buscaglia, padrone di casa e titolare del ristorante (Edilio, a due passi dal Luigi Ferraris) dove Mancini e compagni si ritrovavano per il rito di una serata a settimana da passare assieme, l’occasione per parlare di Sampdoria in libertà. Mancio impegnato a disegnare nuove divise, Vialli a progettare il prossimo scherzo da fare nello spogliatoio a Bogliasco.

 

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Litigi tra i due? Uno soltanto, per un passaggio sbagliato in allenamento di Luca a Roberto, gesto tecnico sbagliato che costò il silenzio tra i due per dieci lunghissimi giorni. Frizione risolta in nazionale, sorriso a mettersi tutto alle spalle senza neanche il bisogno di chiedersi scusa e di nuovo insieme fianco a fianco verso pagine nuove. Passi decisi e fondamentali per arrivare a quello storico 19 maggio 1991. Ceredi, Mannini, Vialli. 3-0 Samp col Lecce alla penultima giornata di campionato e Ferraris in festa, per un tricolore tanto inaspettato quanto meritato. Invasione di campo in perfetto stile Mantovani, Genova a tingersi come una tavolozza di colori di blucerchiato. Il blu, il bianco, il rosso e il nero a mescolarsi e confondersi per le vie del centro, come gli ingredienti che hanno portato la Samp d’Oro sul punto più alto della su storia. Trent’anni oggi. Storia di una bellissima Favola, destinata a resistere al trascorrere del tempo.