Nel 2006 l'arresto, poi il carcere e l'interminabile iter giudiziario, finito soltanto nel mese di gennaio del 2023 con l'assoluzione. Diciassette anni dopo l'inizio del processo per traffico di droga dal Marocco, Michele Padovano è ora libero.
Un percorso lungo, travagliato, che si è concluso nel modo più giusto. La storia di Michele Padovano è una montagna russa di emozioni, che passa per la vittoria della Champions League con la Juventus al processo durato 17 anni, finalmente terminato.
Con l'uscita del suo nuovo libro "Tra la Champions e la libertà", Padovano racconta la sua vita, fatta di persone vere, autentiche, che lo hanno aiutato ad uscire da una situazione molto complicata. Dal 10 maggio del 2006 al 31 gennaio 2023: 6079 giorni di inferno, terminati solo l'anno scorso. Prima della presentazione ufficiale del libro pubblicato da Cairo Editore, che si terrà lunedì 26 febbraio a La Feltrinelli di Piazza C.L.N. di Torino, Michele Padovano ci racconta quello che ha vissuto e provato durante questi 17 anni di calvario.
Un uomo finalmente libero, con la voglia di ricominciare
I sentimenti provati, dopo un viaggio del genere, sono tantissimi, ma Padovano li riassume in pochi concetti: "Finalmente dopo 17 anni di calvario giudiziario posso svegliarmi la mattina sereno, consapevole di aver lasciato tutto alle spalle. Penso che insieme alla mia famiglia posso guardare il futuro molto più serenamente". La serenità, cosa data per scontata nel mondo del calcio, soprattutto nei confronti di un giocatore che nella sua carriera vanta una Champions League da protagonista, l'ultima vinta dalla Juventus nella stagione 1995-96. "Vincere la Champions è un percorso lungo e difficile, lo scorso anno l'Inter l'ha sfiorata e se la sarebbe anche meritata. Il segreto per vincerla non lo ha nessuno, è la competizione per eccellenza, è importante che ci sia un club alle spalle e un gruppo affiatato".
Dopo il ritiro, Michele Padovano intraprende una carriera da direttore sportivo, che inizia con il piede giusto all'Alessandria. Quanto accaduto, però, gli ha impedito di poter proseguire questa strada. Ma Padovano ha dimostrato di non arrendersi mai: "Ho l'attestato da direttore sportivo, mi auguro ci possa essere un'occasione importante, con un gruppo serio e solido, che mi metta nelle condizioni di lavorare nel migliore dei modi".
La finale Mondiale dal carcere e il ricordo di Gianluca Vialli
Nel corso del suo calvario giudiziario, Michele Padovano ha dovuto assistere a uno degli eventi più iconici dello sport italiano dal carcere. Il 9 di luglio del 2006, giorno della finale dei Mondiali in Germania vinti dall'Italia di Marcello Lippi, Padovano aveva subito da pochi mesi l'arresto, dovendo rimanere lontano dalla sua famiglia e dai suoi compagni di una vita, che quella sera erano in campo: "Ho fatto il tifo per loro, non ho mai provato un sentimento di invidia nei loro confronti. Anche se mi sarei aspettato una telefonata. Gli sono stato vicino e ho fatto il tifo come non mai".
Forza d'animo e supporto di persone vere possono aiutare ad affrontare le difficoltà della vita. Padovano racconta della grande magnanimità dei suoi compagni di carcere, con i quali ha dovuto condividere questa brutta esperienza: "In carcere ho trovato grande umanità, all'inizio pensavo che questo trattamento privilegiato fosse perché ero un ex-calciatore. Invece, man mano che il tempo trascorreva, vedevo che anche con gli altri nuovi arrivi c'era molta disponibilità, di questo ricordo il mio compagno di cella Bonny e l'altro Gigi, che veniva in socialità a mangiare nella nostra cella". Serve anche quel poco di spensieratezza, cosa che ha caratterizzato Padovano anche in campo: "Faccio sempre questo esempio, prima cenavo con Zidane e Del Piero nei più grandi alberghi 5 stelle, mentre in quella situazione ero con Bonny e Gigi con vista water (ride, ndr)".
Un pensiero va, inevitabilmente, all'amico di una vita: Gianluca Vialli. Un esempio per tutto il mondo del calcio, ma per Michele Padovano un po' di più: "Il mio rapporto con Gianluca era meraviglioso, ci siamo frequentati molto sia a Torino che a Londra, quando lui giocava al Chelsea e io al Crystal Palace, abitavamo a 200 metri di distanza. Un leader naturale, una persona sensibile. Ogni qualvolta la mia famiglia veniva a trovarmi in carcere, lui telefonava per sapere le mie condizioni". Poi, un pensiero condiviso, per una persona che manca al mondo del calcio: "Avrei voluto vederlo, ma le vicissitudini non me lo hanno permesso. Credo che non morirà veramente mai".
Nonostante il tempo trascorso e le vicessitudini giudiziarie, la passione per le moto non è andata via. Harley Davidson, come il suo soprannome in campo, Padovano ci pensa ancora: "Prima ne avevo due, ora solo una, ma devo dire che l'Harley Davidson è una passione che ho da sempre. Ora ce l'ho anche più comoda per portare la mia signora a fare un giro qualche volta (ride, ndr)".