Non è facile spiegare certi concetti nella loro astrazione. Non è facile perché, per quanto implichino una carica sostanziale di fattualità, ineriscono sentimenti, stati d’animi e una soggettività tanto peculiare quanto – per fortuna! – ineliminabile. Partiamo da lontano, dunque. Ogni contesto sociale, nel quale ci troviamo a dover (o voler…) trascorrere più o meno tempo, è senz’altro strutturato da individui tutti diversi l’un l’altro. Diversi nell’aspetto esteriore, diversi in quello interiore (perlomeno nell’estrinsecazione dello stesso). Andando oltre la mera retorica e le frasi fatte (belle, bellissime ad ascoltarsi ma di scarso consumo pratico, oserei dire estremamente cariche di ipocrisia) c’è chi magari ascolti, ma non ti riesce a trasmetter nulla. Lo ascolti perché le regole di buona educazione asseriscono che tu debba farlo. C’è chi, invece, ti colpisce, ti rimane impresso. Vuoi per la sua indole innata di socialità, vuoi per quel feeling immediato che inevitabilmente si crea con certi tipi di persone.
Ecco, conoscendolo, Alessandro Diamanti rientra tout court in questa cerchia di individui. Non te lo dimentichi, ti rimane impresso, più parla e più lo ascolteresti. Il perché, poi, è estremamente soggettivo. Chi trova una buona ragione nel semplice ma vero, ‘ perché è un grande calciatore’, chi sostiene che ‘lo ascolterebbe per ore e ore per quell’aria di ragazzo originale, creativo, fuori dagli schemi che porta con sé’. Non esistono verità assolute, topos ricorrente ma essenziale da sottolineare. E’ tutto giusto, fino a prova contraria.
Ma conosciamolo meglio, scaviamo in profondità. Proviamo a dar una risposta diversa alla domanda sopracitata. Perché prima del calciatore c’è sempre l’uomo. Perché i calciatori non sono esseri sovrannaturali. Perché i calciatori non volano, non salvano vite umane, non hanno super poteri, non popolano Gotham City. Perché non sempre dietro – pardon, davanti – ad un grande calciatore c’è un grande uomo. Perché non è che se guadagni 8 milioni all’anno allora hai il diritto costituzionalmente garantito di sentirti il ‘super uomo’ degli affascinanti racconti di Nietzsche.
E, a costo di prender la sacrosanta etichetta di ‘rivedibile cantastorie’, diamo subito la risposta alla domanda di cui sopra. Diamanti ti colpisce perché nella sua grandezza è una persona di una semplicità unica, di un’umiltà fuori dal comune. Ti parla come se ti conoscesse da una vita, ti ascolta come farebbe uno degli amici più stretti, ti dice le cose reali. E’ schietto, sincero. Ed esser schietti oggi è una virtù, una qualità. “Piacere Alino…”. Ci saluta con un bel sorriso, #bepositive come il motto della sua famiglia e lo smile che tempo fa si è tatuato sul polpaccio. Ma abbiamo già svelato fin troppo, Alino…Perché? “La gente pensa che questo soprannome abbia chissà quale significato, invece… Io ho sempre girato con ragazzi più grandi di me e nel mio gruppo eravamo in due a chiamarci Alessandro. Così, essendo il più piccolo, per non confonderci mi hanno iniziato a chiamare Alino”.
Alino per gli amici… “Alino per tutti! Sono una persona molto semplice e – racconta Diamanti ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com - insieme alla mia famiglia conduco una vita altrettanto semplice. Ho le mie idee, i miei valori, la mia personalità. Non me ne frega nulla di apparire in modo diverso, io sono come mi vedete! Non ho maschere, sono così ragazzi... Ma nella vita, qui mi sento di dare un consiglio a tutti i giovani, è fondamentale aver la propria personalità. Ragionare con la propria testa, prendere iniziativa, scegliere in base alle proprie convinzioni. Non fatevi mai condizionare, non serve! E poi dico un’altra cosa: aver personalità non significa andar contro gli altri, ma discutere con gli altri per le proprie idee. Troppa gente se lo confonde”. Dalla spiegazione alla pratica, in un mondo tutto incentrato su apparenza e aspetto esteriore. In un mondo nel quale puoi esser te stesso soltanto fin dove la tua personalità non cozza con quella del comune sentir sociale… “A me dell’aspetto esteriore non importa veramente nulla! Dal barbiere ci vado una volta ogni…nemmeno mi ricordo! I capelli me li taglio da solo, a casa. E quando cresceranno mi farò aiutare dai miei figli, così si divertiranno coi miei ricci. Il mio corpo è pieno di tatuaggi. Credo di esser stato uno dei primi in Serie A! Ma oggi i tatuaggi li fanno per moda, per gusto estetico. Vanno lì e chiedono le anestesie totali perché hanno paura dell’ago…significa farsi un tatuaggio questo? Io me li sono fatti perché me li sentivo, perché avevano un significato per me. Poi se piacciono o no, problemi degli altri. Oggi sono tutti uguali…”.
Dall’accento al modo di fare, tipico toscano Diamanti. Simpatico, sorridente, affabile, con la battuta sempre pronta. Anzi, con quel motto toscano sempre pronto… “Amici miei, senza lilleri un si lallera! Che significa? Mille cose, ognuno può dargli il significato che vuole, come a tutte le cose di questo mondo per fortuna”. Sul braccio si nota un braccialetto rosso scintillante. Scaramanzia o estetica? “No, no…scaramanzia! Lo porta tutta la mia famiglia ed ha una funzione apotropaica, allontana i pensieri negativi. Lo cuce a mano la nonnina di mia moglie che ha 95 anni. Durante Italia-Germania l’arbitro me lo fece togliere. Così ho preso e me lo sono messo nelle mutande. Il braccialetto rosso è parte di me…”.
L’altra parte di Alino è ovviamente il pallone. Minimo comune denominatore di una vita. Infanzia, adolescenza, tutto. Il pallone c’è sempre. Usciva da scuola di corsa, tornava a casa, ‘lanciava la cartella’ e via al centro sportivo di nonno, a venticinque metri esatti da casa sua… “Andavo alle 13 e tornavo a casa alle 20. Se pioveva o nevicava non me importava nulla, io dovevo stare lì a giocare, anche da solo. Da lì è cominciato tutto, ricordo che prendevo certe zampate…”. Scuola, calcio e casa del popolo: briscola, tressette, scopa. “A carte sono una macchina da guerra…”.
A proposito di macchina… “La 500 rosa? Sta bene, dai. L’ho comprata a Brescia…’Amore vado a comprare un’utilitaria’ e mi presento a casa con la 500 rosa. Ma non c'entra la personalità eh, era l’unica in pronta consegna (ride)”. Che poi utile, in fondo, lo è stata per davvero! Per accompagnarti in tutto quel giro d’Italia… “Livorno e Bologna sono state le esperienze più belle della mia vita. Palermo, da un punto di vista strettamente calcistico, la più brutta. Ma se potessi tornare indietro l’unica cosa che non rifarei è lasciare il West Ham. Per il resto non ho rimpianti anche se prender certe scelte è stato veramente difficile…”.
Una su tutte: lasciare quella Bologna che si era innamorata davvero al suo sinistro vellutato. Lasciare una squadra nella quale Diamanti era davvero un simbolo. Icona di una città, di una curva che trasuda quella sensazione di alternativismo facile da ritrovare nella stravaganza del suo leader. Una simbiosi perfetta, ideale. Nulla è eterno asserirebbe ‘il cinico’… “E’ stata la decisione più difficile della mia vita. Sono state dette molte cose inesatte, è stata fatta molto confusione e la gente ascolta e capisce soltanto quello che vuole! Io penso che se una cosa ha un prezzo allora è in vendita. Se ci tieni davvero quella cosa non la vendi e basta, non ti siedi nemmeno ad ascoltare, non ha prezzo. La decisione di andar via è stata presa da più persone e credetemi i soldi non c'entrano niente. In fin dei conti in Cina ho guadagnato lo stesso di quanto avrei preso a Bologna!”.
L’altra scelta, invece, è stata relativamente più facile, ma non meno sofferta. Perché Diamanti è una persona di cuore: si affeziona e si fa voler bene… “Venivo dall'interregionale, dopo Livorno mi chiama il West Ham…come faccio a dire no? Semmai ho sbagliato dopo a tornare in Italia, avendo realizzato 8 gol e una stagione importantissima. Ma avevo il chiodo fisso della Nazionale e chi giocava in Premier non era molto considerato…”.
Un chiodo fisso, appunto. Un sogno che si perpetuava dai pomeriggi adolescenziali nel centro sportivo di nonno. Un sogno che in qualche modo Alino avrebbe dovuto realizzare. E se credi in quello che fai, se ci tieni veramente, se non molli un centimetro… alla fine tutto, o quasi, arriva… “Ogni volta che prendevo il borsone della Nazionale e varcavo il cancello di Coverciano avevo il sorriso di venti anni prima. Come un bambino che scarta il regalo di Natale, che crede alle favole. La Nazionale per me è stata una favola, è stata il coronamento di tutto quello per il quale credevo e lottavo. Anzi, credo e lotto. Andavo al parco giochi, mi sedevo e ci pensavo da solo…’Pensa Ale quanto sarebbe bello indossare la maglia del tuo popolo. Quella maglia che rappresenta la tua famiglia, i tuoi amici, la tua città, tutto’. E quel rigore contro l’Inghilterra… Ad ogni passo ripetevo nella mia testa ‘Alino o bene bene o male male. O ti gira o ritorni da dove sei venuto’. E per il c… che mi sono fatto…”.
Una carriera che rispecchia il suo modo di essere. Semplice, aperto…in continuo movimento! Come in campo, da una parte all’altra, in mezzo al campo o a ridosso dell’area di rigore avversaria. Convinto e determinato… “E’ facile essere una bandiera con 5/6 milioni in saccoccia all’anno! Fare dieci o quindici anni in una squadra certamente è motivo di onore… ma è anche molto facile. Non a caso le bandiere hanno tutte giocato nelle grandi squadre”. Che piaccia o no, è verità sacrosanta. Ma la verità non deve piacere, la verità non ha colore. E’ una mera costatazione di fatto. La verità non può e non deve piacere, non è mica un sentimento! “Io sono innamorato di Livorno! Tifo Livorno, ma non a chiacchiere. Sono un tifoso vero perché i livornesi sono persone vere, schiette, proprio come me. Loro mi hanno sempre sostenuto, ovunque io sia andato e questo non me lo scorderò mai e poi mai. Chiudere la carriera a Livorno? Sarebbe una bella cosa, ci ho pensato. Prima però vorrei fare un altro, ultimo anno di Serie A e soprattutto niente promesse. A me, d’altronde, le parole piacciono poco. Dico soltanto che in ogni caso il rapporto tra me e la gente di Livorno sarà sempre bello”.
Ora Diamanti si allena a Bologna. Mattina e pomeriggio. Perché lui non può star fermo, non è nella sua indole. E l’indole va assecondata, sempre e comunque… “La mattina mi alleno da solo, il pomeriggio con i ragazzi del Bologna. Ringrazio la società e Di Vaio per questa possibilità, poi oh io glielo ho detto…A Bologna ci tornerei a giocare anche gratis! Ma loro come è giusto che sia fanno le loro scelte. Io aspetto, non faccio le cose tanto per…”.
Un ultimo sorriso, lo salutiamo. Si chiude il nostro racconto, non quello di Alino. Per il suo, giustamente, c’è ancora un po’ di tempo. Ma il suo non è un romanzo, la storia di Alino è una bella, bellissima fiaba. Vuoi per il soprannome, vuoi per l’epilogo che comunque vada sarà a lieto fine. E’ già tutto scritto, basta soltanto… strofinare la lampada! La lampada di Alino…