Ricorrerà quest’anno il decimo anniversario dalla visita della Nazionale Italiana di calcio al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. E ci sembrava giusto ricordare in questo 27 gennaio, Giorno della Memoria, quella mattinata del 6 giugno 2012 quando i ragazzi guidati dal CT Cesare Prandelli varcarono quei cancelli.
Era la vigilia di un Europeo vissuto da protagonisti, del duo Cassano-Balotelli, della ricostruzione di Prandelli dopo le macerie del Mondiale Sudafricano. Un’avventura in terra polacca che la Nazionale decise di inaugurare con un qualcosa che andava oltre il calcio: “Una decisione che prendemmo tutti insieme. – ricorda Cesare Prandelli ai microfoni di gianlucadimarzio.com - Dal presidente federale a tutta la delegazione azzurra, fino ovviamente ai ragazzi. Ci sembrava obbligatorio stando in Polonia conoscere quello che fu e commemorare un momento buio della storia”.
Per non dimenticare. Un refrain che di vuoto non ha nulla, da sempre e per sempre: “Le testimonianze di quello che fu, raccontato da chi purtroppo le visse sulla propria pelle, sono tracce indelebili che porterò sempre con me”, ricorda l’ex CT Prandelli. Ad accompagnare la delegazione azzurra c’erano Sami Modiano, Piero Terracina e le sorelle Andra e Tatiana Bucci, tutti sopravvissuti proprio al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e testimoni attivi – tranne Piero Terracina venuto a mancare nel 2019 – ormai da anni della Shoah italiana.
Una visita che colpì tutta la delegazione azzurra. “Momenti emotivamente indelebili. Fu un’esperienza forte e diretta”, ricorda Prandelli. Una sensazione palpabile anche tra i calciatori: “Mi ricordo come fosse ieri la partenza del pullman dal ritiro. Sembrava la classica gita di ragazzi, tra risate e scherzi. Ma man mano che ci avvicinavamo al campo i ragazzi capirono. Quei lunghi minuti prima di arrivare furono di un silenzio assordante”. I boschi attorno ad Auschwitz non lasciano spazio ad altro che all’inquietudine. Chi vi scrive quel giorno era lì presente e gli occhi di tutti, digiuni fino ad allora di quello che è ed è stato Auschwitz, non poterono mentire.
Chiacchiere poche, domande tante. Nel lungo camminare attraverso le baracche, i viali del campo, il museo, gli sguardi di tutti erano esattamente dove la visita li stava portando. Dentro ad una tempesta emotiva fatta di poche chiacchiere e un’infinità di domande. Chiellini e Buffon a chiedere come fosse stato possibile far accadere tutto ciò. De Rossi, Pirlo e Balotelli meno loquaci e maggiormente concentrati nell’ascoltare la traduzione della guida attraverso le cuffiette. Per ogni luogo, per ogni teca, in ogni singolo angolo di un campo che trasuda angoscia, nonostante i fiori sugli alberi di una mattinata estiva del 2012.
I dormitori, le baracche diventate museo. Questi infiniti casermoni a fare da funerea cornice ai forni crematori lasciano il segno: “Sembrava di sentire l’eco di chi in questi luoghi perse la vita”, ricorda Prandelli. E poi i racconti di chi si salvò, fatti esattamente nel punto in cui ad Auschwitz c’era chi decideva arbitrariamente tra la vita e la morte. Lì, sui binari della Bahnrampe, ovvero la rampa dei treni dove arrivavano i convogli dei deportati. I calciatori seduti e i testimoni a raccontare quello che fu. Gli occhi fissi a terra, di tutti. Ascoltando le storie strazianti di Sami, di Piero e delle sorelle Bucci.
Un’esperienza che segnò indelebilmente molti dei protagonisti anche del calcio attuale. “Il ritorno in albergo fu davvero un lungo momento di riflessione per tutti”. Da Auschwitz non si esce migliori, si esce diversi. Testimoni che tutto quello che è stato non dovrà mai più accadere.