"Certo che accetto, ma a una sola condizione: non voglio soldi". Vittorio Pozzo rispose così, in un freddo pomeriggio del 1912, a un dirigente federale che gli offriva la panchina della Nazionale. Una risposta sui generis e che dopo più di un secolo suona surreale. Fu l'inizio di una lunga (e intervallata) storia d'amore. Lui che era già stato un calciatore e aveva già, contemporaneamente, fondato... un club. Eh già, perché nel 1906, quando ancora giocava col Grasshoppers, risultò tra i firmatari dell'atto costitutivo del Torino. Una squadra per la quale avrebbe poi anche giocato, diventandone una colonna. E, in quel disgraziato 4 maggio del 1949, si recò a Superga dopo il tragico schianto dell’aereo sul quale viaggiavano gli eroi del “Grande Torino”. Fu lui a dover riconoscere i cadaveri. Quei calciatori li conosceva benissimo, calcisticamente e umanamente, e pochi anni prima li aveva addirittura schierati in blocco (10 su 11 con la sola esclusione del portiere, juventino, Sentimenti IV) quando era ancora allenatore della Nazionale, in un’amichevole contro l’Ungheria dell’11 maggio 1947. Fu uno strazio e alla fine, anche un uomo dal temperamento duro, da ex alpino, ebbe un mancamento.
Vittorio Pozzo non è stato solo l'unico allenatore della storia a vincere due campionati del mondo (1934 e 1938) intervallati dal successo nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, ma anche giornalista de "La Stampa" . Una penna raffinata, un uomo umile. I giocatori, eroi del doppio trionfo, lo amavano. Dietro la sua inflessibilità, quasi da militare, si celava una grandissima umanità. E il suo fare paternalistico era amato da tutti all'interno del gruppo. Si racconta che, durante i ritiri, fosse solito sedersi a tavolino, immerso tra mille carte e lettere. Di tanto in tanto alzava lo sguardo per poi immergersi nuovamente nei suoi pensieri. Era capace di dare coesione al gruppo, si diceva. Era vero. Oggi, se potesse ancora scrivere, avrebbe parole al miele per Ancelotti. Dal punto di vista tattico non era un genio, almeno così dicevano gli stessi calciatori, ma era una persona dai valori straordinari e fu un grande condottiero. E amava il Metodo, anche quando sembrò a tutti palesemente superato dal Sistema. Soprattutto in un'amichevole del 1948 contro l'Inghilterra persa 4-0 a Torino. Finì male, malissimo e per uno che aveva allenato i "Leoni di Highbury" era tanto, troppo. Lasciò la Nazionale, dopo 6.927 giorni complessivi, rispettato da tutti e onorato. Senza critiche, senza processi mediatici. Portava sempre nel suo taschino un frammento di una coppa di cristallo di Boemia che aveva vinto nel lontano 1911 e che, cadendo al momento della premiazione, si era rotta in mille pezzi: diceva gli portasse bene, ma non in quel pomeriggio. La sua fortuna non finì però quel giorno: Pozzo resta un mito, imperituro, ab aeternum, del calcio italiano.