Voce bassa ma idee molto chiare. Ne ha di cose da dire Mamadou Coulibaly. A maggio saranno tre anni da quando è scappato dal Senegal ed il viaggio che lo ha portato ad essere oggi un punto fermissimo del centrocampo del Pescara (il suo cartellino è di proprietà dell’Udinese) è di quelli che - purtroppo - si leggono ogni giorno sulle pagine di cronaca dei giornali. Prima il Marocco, poi tutte le speranze riposte in un barcone diretto in Francia. “Lì sono stato accolto da mia zia che dopo un anno però mi ha cacciato. E io da quel momento non ho voluto più avere contatti con lei, anche se quando poi sono diventato un calciatore ha provato a chiamarmi”. Il legame, quello forte ed inossidabile, allora, è rimasto con il papà. “Ci sentiamo sempre dopo le partite, e quando posso gli mando i miei video, visto che lui è in Senegal e non ha modo di seguirmi in tv”. Al Pescara è arrivato dopo essere stato accolto in una casa famiglia a Roseto e da lì ha iniziato la sua ascesa. “Il primo giorno di allenamento ero con la Primavera. Dopo la doccia mi ha fermato Oddo e mi ha detto di cambiarmi di nuovo perché avrei dovuto fare anche la seduta con la prima squadra. E’ stato un po’ faticoso, lo ammetto, ma anche una grande soddisfazione”.
Dopo tre anni in Italia, Coulibaly - con la C e non la K perché a differenza del difensore del Napoli, lui è di origini Malesi - parla un italiano praticamente perfetto. “Merito delle persone che mi circondano. Se mi fossi fermato solo con i senegalesi, ora non parlerei una sola parola. Invece stando in mezzo a tanti italiani, ho imparato subito”. A casa guarda la tv e sopratutto il calcio. “Quello inglese mi piace moltissimo, ed i miei idoli sono Yaya Tourè e Obi Mikel. Se sono scappato dal Senegal è stato sopratutto per la mia grande passione per il calcio. Mio padre voleva che studiassi, ma a me la scuola non è mai piaciuta: volevo solo giocare a pallone”.
Nella scala dei valori della sua vita al primo posto c’è la mamma. Lei è l’unica donna che conta e lo sarà per sempre. Anche in caso di gol lo dedicherei certamente a lei”. Poi ci sono le sorelline (8 e 12 anni), che non hanno il suo poster affisso in cameretta, “ma poco ci manca”, aggiunge con un sorriso. Contagioso. Come quegli occhi pieni di fame e di speranza. Lo specchio di un ragazzo di 19 anni che non ha ancora la patente, ma conosce bene la strada fatta di sacrifici che conduce al successo.