La verità è che Roma la devi imparare a conoscere prima di capirla fino in fondo. Te lo dimostra subito, appena arrivato. Perché prima di vedere il Colosseo, il suo simbolo, c’è un’ora di strada da percorrere, se il tuo primo impatto con la città è l’aeroporto di Fiumicino. Lì Kevin Strootman ha avuto il suo primo riscontro di romanità. Circa mille tifosi il 16 giugno del 2013 hanno atteso un olandesone sbarbato e poco sorridente di 23 anni, presentato come uno dei giovani centrocampisti più promettenti d’Europa.
Si parla di “ambiente romano” invece come di quel luogo composto da radio e televisioni giallorosse che a volte ha esaltato i giocatori dal grande carisma e dalle spalle larghe, altre volte invece ne ha bruciato la carriera.
Strootman, che di spalle grandi ne ha sempre avute, decise di dare un segno evidente. Scelse di posizionare all’interno delle sue spalle il numero 6. Non un numero casuale, ma quello lasciato incustodito da Aldair da oltre 10 anni.
Fu voluto da Rudi Garcia, colui che ora lo rivuole per sé, ma a Marsiglia. È con l’allenatore francese che Strootman diventò “la lavatrice” per quella sua capacità di ripulire palloni. Per quella sua caratteristica di essere un giocatore box to box, in grado di recuperare il possesso e di offrire qualità in attacco. Un soprannome però che con il senno di poi ha assunto il sapore di maledizione. Affibbiato all’olandese nella semifinale d’andata di Coppa Italia contro il Napoli del 2014, un mese prima dell’inizio del calvario. Il primo infortunio al ginocchio arriva in campionato sempre contro il Napoli. L’articolazione fa crac e la macchina che sembrava inarrestabile si ferma e smette di girare.
Roma però è così vive di passioni viscerali e repentine e quel centrocampista arrivato solo qualche mese prima entra immediatamente nel cuore dei tifosi. Perché quella maglia numero 6 in campo lotta su ogni pallone ed è espressione di ogni tifoso giallorosso che lo guarda dagli spalti e si rivede in lui. La maglia sudata al termine della partita, il ghigno e i denti stretti ad ogni rincorsa dell’avversario sono le immagini alle quali non puoi non affezionarti.
Non si è mai tirato indietro Kevin, neanche quando in quella partita del San Paolo decise di giocare, nonostante un fastidio al ginocchio avvertito in Nazionale qualche giorno prima avrebbe potuto farlo desistere. Chissà come sarebbe andata viceversa la sua carriera. Non si è risparmiato neanche quando quasi un anno dopo contro la Fiorentina a pochi mesi dal rientro sentì di nuovo la stessa sensazione, capendo che dal tunnel non c’era ancora uscito.
Servirono 953 giorni per vedere la luce, per gonfiare di nuovo la rete. Contro il Cagliari calciò di cattiveria una palla che sulla riga aveva bisogno solamente di oltrepassare la linea. Questione di rabbia repressa e di adrenalina immagazzinata e rinchiusa per troppo tempo. C’era cattiveria, sofferenza e rammarico per quei giorni persi tra fisioterapia ed esercizi di potenziamento lontano dal campo. C’era cattiveria sportiva anche quando segnò qualche mese il dopo il suo primo gol al derby. Box to box dicevamo. Il primo a pressare e a credere nell’errore di Wallace e spostando con una spallata Dzeko, perché quel gol lo voleva con tutto se stesso. La corsa e l’urlo sotto la Curva Sud è una di quelle immagini che finiscono nei telefoni per essere visti e rivisti ancora.
Se ne ritorna indietro ripercorrendo la stessa strada fatta ormai 5 anni fa. Conoscendo però di più Roma: “Non tornerò in Olanda è qui che vorrò vivere” aveva detto qualche anno fa e forse chissà una volta appesi gli scarpini al chiodo lo ritroveremo come un qualsiasi turista olandese a girare per la città. Mentre questa estate aveva rassicurato: “Ho firmato un contratto per altri cinque anni, sono contento. Se non mi vogliono mandare via rimango”.
Rimarrà invece di Kevin la sua romanità. Il suo accento capitolino ma con la erre moscia che tradiva le sue origini. Rimarrà a Trigoria lo spirito di chi non sa perdere neanche nelle partitelle. Ci sarà un vuoto a centrocampo. Mancherà una lavatrice che ripulisce le palle sporche. Per questo ha fatto innamorare i tifosi, che anche dopo i suoi infortuni hanno dimostrato un amore incondizionato per quello che era stato all'inizio il numero 6. Rimarrà un vuoto nel cuore dei tifosi: un olandese che ha perso la sua freddezza nordica, affascinato dalla romanità.