Chissà se Sebastian Abreu ricorda il giorno in cui indossò la maglia del Defensor Sporting, la prima della sua carriera. Era il 1994, giocava a Montevideo, 121 chilometri da Minas, la città in cui è nato nell’ottobre del ’76. Ancora non sapeva che, dopo quella camiseta viola, ne avrebbe indossate altre 25. Come lui nessuno mai. Già, perché El Loco, come viene universalmente conosciuto Abreu, ha da poco annunciato l’accordo con i cileni dell’Audax Italiano, squadra numero 26 della sua carriera. Un record assoluto, con tanti saluti al primato condiviso con Lutz Pfannenstiel, ex portiere tedesco. Uno capace di giocare in tutte le sei confederazioni FIFA ma “solo” in 25 club. Lutz si è ritirato sei anni fa e oggi, a 44 anni, fa l’osservatore dell’Hoffenheim. A meno che non decida di rimettersi i guanti, può solo alzare le spalle e applaudire la nuova avventura dell’uomo con la valigia.
E pensare che Sebastian, da ragazzo, neanche voleva giocare a calcio. Dall’alto del suo metro e novanta, sognava una carriera nella pallacanestro, la sua passione originale. Tutt’altro che un’utopia, visto che era stato convocato nella nazionale uruguaiana under 16. Ma i soprannomi hanno sempre un senso. Una folle fuga notturna dal ritiro indusse l’allenatore a metterlo fuori squadra. Sebastian, che se la cavava bene anche con i piedi, decise che era il momento di abbandonare la canottiera e indossare i parastinchi. Un anno dopo era nazionale under 17. Di calcio, ovviamente. Storie da Sudamerica, la terra che Abreu ha attraversato quasi interamente. Là, a parte Colombia, Venezuela e Perù, ha giocato ovunque. Una sorta di Che Guevara dell’area di rigore, senza motocicletta ma con la stessa aria da guerriero. Un’icona, per il suo modo unico di stare al mondo e in campo. Loco, ma soprattutto eterno Peter Pan. Ancora oggi gli capita di precipitarsi sui calci piazzati urlando “llègò el tsunami del area!”. Totalmente incapace di prendersi troppo sul serio, sia in una partitella con i 4 figli, sia in un quarto di finale di Coppa del Mondo. Il suo cucchiaio all’ultimo rigore contro il Ghana spedì l’Uruguay in semifinale nel mondiale sudafricano. Follia e incoscienza, pregi e limiti costanti di una carriera passata a sedurre e abbandonare le sue tifoserie.
Colpi di tacco e di testa, giocate cristalline e risse con gli avversari, senza mai avere addosso l’etichetta del mercenario. Tutti hanno sempre amato la sua capacità di fare gol –400 in carriera fra club e nazionale – e le sue stranezze. Il corpo dipinto da motivi religiosi e le scaramanzie. Perché Sebastian avrà anche cambiato 26 maglie, ma al momento di entrare in campo, ha sempre messo prima il piede sinistro, quello migliore. E sulle spalle ha indossato quasi sempre il 13. Un marchio, intaccato solo nelle fugaci apparizioni spagnole a La Coruña e Real Sociedad, uniche tappe europee insieme all’Aris Salonicco. Un calcio troppo pratico per chi è abituato a fuggire da schemi e luoghi. Comuni e geografici.
Che se la tengano l’Europa, avrà pensato Sebastian mentre faceva impazzire i tifosi del Botafogo, club che lo ha omaggiato con una seconda maglia celeste, i colori dell’Uruguay. Perché per il Loco ci si può anche dimenticare di un Maracanazo. Un amore profondo, ricambiato da 55 gol e aneddoti epici.
Uno su tutti, il doppio cucchiaio - in due rigori diversi - nel derby vinto 3-2 contro la Fluminense nel 2011. Due tiri dal dischetto identici, manifesto di irriverenza e spavalderia, a distanza di quattro minuti l’uno dall’altro. Il primo, sbagliato. Il secondo, segnato. Stessa trama, finale diverso. Cosa vuoi dire a uno così, se non abbracciarlo fra qualche settimana. Perché l’Audax Italiano e il Botafogo si troveranno davanti nella Coppa Sudamericana. Sceneggiatura perfetta e ineluttabile. Ennesimo colpo di scena di un giocatore capace di farsi amare e odiare in Israele come in Argentina, in Bolivia come in El Salvador. Anche lì ha giocato El Loco. Inseguendo un pallone e la sua felicità. Quella che credeva di aver perso per sempre nel 2002, quando uno dei suoi migliori amici morì in un incidente stradale in Messico, ai tempi del Cruz Azul. Sebastian era in macchina con lui, ma si salvò. Se lo porta sempre dentro, consapevole che la vita va vissuta fino in fondo, perché può capitare che finisca improvvisamente.
E allora, a 41 anni, c’è tempo per ricominciare ancora. Dopo aver vinto sei titoli nazionali, una Copa America ed essere stato 6 volte capocannoniere, la prima nel 2000 a Guadalajara, l’ultima pochi mesi fa a Puerto Montt, c’è ancora spazio per un altro magnete sul frigorifero. Sopra c’è scritto Santiago del Cile, l’undicesimo paese della sua carriera. Colore verde, come la maglia dell’Audax Italiano, club fondato tanti anni fa dai nostri connazionali. Uomini che fecero la valigia inseguendo i propri sogni. Di sicuro lo apprezzerebbero, quel pazzo numero 13, bandiera di se stesso.