“Di’ la verità, l’hai detto apposta di trovarci davanti allo stadio del triplete dell'Inter?”. Federico Jaselli Meazza abbozza un sorriso. “Proprio per caso no, dai”. Sono le 11 di sabato mattina, Madrid deve ancora riprendersi dalla nottata. Per trovare un bar aperto bisogna ricorrere a tutte le conoscenze di Federico, milanese di nascita e madrileno d’adozione. 50 anni, da dieci vive nella capitale spagnola dove ha famiglia e lavora in IBM. Il calcio e l’Inter, le passioni di una vita. Non solo della sua.
Il cognome è quello di mamma Silvana e di nonno Peppìn. Quel Giuseppe Meazza che ha dato il nome a San Siro, due volte Campione del Mondo e miglior realizzatore della storia nerazzurra. Federico si presenta con una maglia vintage della Nazionale anni ’70, sembra Claudio Gentile, ha scritto un libro su Peppìn e lo porta insieme a lui: “Mi pareva l’outfit migliore per parlare di mio nonno”. Finalmente ci sediamo in un caffè che dà sul Bernabeu e la storia di Meazza jr. può avere inizio.
Ridare parola a Peppìn
“Tutto è nato a inizio 2010 - racconta su Gianlucadimarzio.com - in occasione del centenario della nascita di mio nonno. Fabio Monti, giornalista del Corriere della Sera, mi dice che c’è un suo collega che vorrebbe scrivere un libro su Meazza”. È Marco Pedrazzini, giornalista documentarista anche per la Gazzetta e appassionato nerazzurro. “Con lui è nato subito un grande feeling professionale”, continua Federico. “Abbiamo cominciato a raccogliere materiale: fotografie inedite, vecchi articoli, cimeli. Pedrazzini si è occupato di statistiche e didascalie. Mentre io mi sono dedicato soprattutto alla vita di mio nonno. Attraverso tante interviste a famigliari, amici e personalità del mondo Inter come Massimo Moratti”.
“Mi chiamo Giuseppe Meazza e questa è la mia storia”. Sin dall’incipit, il libro rivela la sua natura: il nonno e il mito, che prendono voce attraverso il nipote e il giornalista. “Anche sulla base di documenti scritti da lui. Tutto è in prima persona”. Dai primi calci al pallone, quando la mamma lavorava nel mercato ortofrutticolo, fino agli ultimi anni da allenatore e dirigente. “Da ragazzo Peppino era milanista, come tutti gli amici del quartiere di Porta Vittoria. Ma poi c’è stato Zizì Cevenini”. Magari il nome vi dice poco, ma all’epoca era come parlare di Icardi oggi: i bambini tifavano per l’Inter grazie ai suoi gol. E così ne fu rapito anche Meazza. “Aveva talento e passione. Fu presto notato da un osservatore nerazzurro e da lì l’ascesa fu rapida. Ironia della sorte, mio nonno esordirà in prima squadra quando il suo idolo Cevenini passerà alla Juve. Era il 1927, aveva 17 anni”.
Precocissimo, e con un fisico ancora da formare. “Poldo Conti, uno dei veterani di quell’Inter, apostrofò l’allenatore: -Ora facciamo giocare anche i balilla?-. Da lì nacque il soprannome che mio nonno si portò dietro per tutta la carriera. A quei tempi era un termine talmente di uso comune che non ci si faceva politicamente caso come oggi”.
Il balilla smentì subito i grandi. “Due gol alla prima in un torneo estivo, altrettanti all’esordio in campionato. Così iniziò la sua carriera su livelli eccezionali”. 286 gol in 409 presenze con la maglia dell’Inter, poi due scudetti e tre titoli di capocannoniere della Serie A. ‘È veramente nata una stella’, scrive la Gazzetta. E come tutte le stelle, Peppìn ha il suo marchio di fabbrica. “Cominciò a diventare famoso il gol alla Meazza: arrivava a tu per tu con il portiere, lo invitava all’uscita e poi lo dribblava segnando a porta vuota. Una volta uno di loro si rifiutò di uscire dai pali, fisso sulla linea fino all’ultimo. Mio nonno gli fece gol lo stesso. -Vabbè, ma almeno non mi ha fatto il suo giochino-”. Magre consolazioni.
Pioniere (ner)Azzurro
La celebrità colpì Meazza anche fuori dal campo. “Era l’epoca in cui c’erano le prime pubblicità sui giornali. E le aziende chiamavano lui come testimonial: per la brillantina, per il dentifricio. Divenne un personaggio trasversale, un professionista esemplare ma gli piaceva anche divertirsi”. Macchine, uscite, belle ragazze: il prototipo del calciatore moderno. “Si narra di una famosa partita in cui Peppino si presentò in ritardo, facendosi portare in taxi allo stadio: dopo una notte brava non aveva sentito la sveglia. L’allenatore e i compagni lo squadravano severo, lui dopo dieci minuti segnò due gol. Cosa gli potevi dire?”.
Nel 1930 arrivò la Nazionale. “All’esordio contro la Svizzera a Roma, l’Italia era sotto 2-0 all’intervallo. Il pubblico fischiava, uno dei tifosi che gridava -Meazza vai al macello- si beccò l’ombrellata di mia bisnonna che sugli spalti ‘difendeva’ il figlio. La critica era divisa: molti volevano in azzurro Attila Sallustro, fortissimo attaccante del Napoli, al posto di mio nonno. Poi nel secondo tempo Meazza fece doppietta, l’Italia vinse 4-2 e cambiò la storia”.
Quella storia che l’Italia fascista si ostinava a voler dominare anche attraverso lo sport. “Prima del Mondiale di casa nel 1934, il presidente della federazione si trovò di fronte Mussolini. -Speriamo di vincerlo-, gli disse. -Come speriamo? Il Mondiale si vince, sì o sì”, fu la risposta del Duce”. Tra gli eroi della spedizione di Pozzo ci fu anche Meazza, matador della Spagna nella gara di ripetizione dei quarti di finale. “E nel ’38 fu ancora più difficile. Gli Azzurri in Francia giocavano in un clima proibitivo, l’inno sistematicamente fischiato da tutto il pubblico, non italiano e italiano antifascista”.
Esordio ostico contro la Norvegia, poi un cammino più agevole fino ai quarti contro il Brasile. “Nel secondo tempo c’è rigore per l’Italia sull'1-0. Mentre mio nonno va sul dischetto gli si rompe l’elastico dei pantaloncini. Cosa fa lui? Se li tiene con una mano e tira. Un gol che fa capire il talento e la freddezza del giocatore”. Ve la immaginate la scena oggi? Boom sui social garantito. “Quando poi Meazza solleverà la Coppa vinta dall’Italia, arriveranno i complimenti del presidente e del capitano francese. -Bravò, bravò!-”. Un riconoscimento senza confini, a pochi mesi dalla guerra.
“Lui non vi prenderà parte. Un campione di tale livello era molto coccolato dalla federazione e dal regime, anche per l’immagine dell’Italia. E Meazza era uno dei pupilli del Duce. Al punto che questi cercò di farlo a giocare a Roma nella Lazio”. Ma senza successo: Peppino amava Milano e l’Inter, con buona pace di Mussolini. “Il suo rapporto con lui? Mio nonno politicamente non si è mai schierato. Bravo e intelligente a tenersene al di fuori. È riuscito a non diventare un simbolo del regime senza metterselo contro. Lui era Meazza, calciatore, grande campione. La politica era un’altra cosa”.
Ma alla soglia dei trent’anni un misterioso infortunio ne segnò la carriera. “Il periodo del piede gelato. Nessuno capiva cosa fosse, Giuseppe consultò addirittura una maga. Finché un medico individuò un problema all’arteria e lo curò”. Ormai però era passato un anno senza attività agonistica: l’Inter sembra non credere più in lui. “E fece un accordo con il Milan per un clamoroso trasferimento, gli diedero del traditore. Mio nonno accettò la nuova maglia perché voleva continuare a giocare. Ma quando, al primo derby da ex, segnò per il Milan, Meazza pianse”. Dolceamaro finale. Juve, Varese, Atalanta e poi di nuovo Inter: nel 1947, a quasi 37 anni, Peppìn dà l’addio al calcio.
L'uomo dietro al campione
“Se Meazza è stato il giocatore che è stato, lo deve soprattutto a due guide esemplari: Vittorio Pozzo e Arpad Weisz”. L’allenatore che lo fece debuttare con l’Inter. “Uomo di grande sensibilità e tattico visionario”. Vincerà uno scudetto in nerazzurro, due al Bologna. Ma poi Weisz, ebreo ungherese, pagò sulla sua pelle quella fase storica assurda. “Quando mio nonno venne a sapere della fine che fece ad Auschwitz provò lo stesso dolore di un figlio che perde il padre. E non ne dimenticò mai la lezione.
-Caro il mio Peppino, ricordati sempre di giocare e vivere con umiltà, altrimenti sarai perduto-. Meazza lo tenne presente, l’uomo prima del calciatore”. Una persona a suo modo semplice e modesta. “Gli piaceva l’abbraccio con i tifosi, pur essendo abbastanza introverso. Era molto abitudinario e legato al suo mondo, alla sua Milano. E aveva amici di tutte le estrazioni sociali: c’era il sarto Rosario, il salumiere Arturo. Un’assenza di pregiudizi che mi piace credere di avere ereditato da lui”.
E nonno Peppino com’era? “Quando è mancato avevo dieci anni, da poco avevo sviluppato una certa passione per il calcio. Uno dei miei ricordi più belli era andare allo stadio con lui. Il pubblico che applaudiva quando arrivava o si alzava (sempre un quarto d’ora prima della fine: non voleva trovare traffico), i rimproveri quando mi scalmanavo: la partita era la partita. E poi i palleggi in giardino”. Gioco duro, per il piccolo Federico. “Il nonno faceva sempre qualche smorfia: non controllavo bene la palla, o non colpivo bene di testa. Provava anche a darmi qualche consiglio: -In diagonale, mira sempre al palo più lontano!-. Mi divertivo, ma non sono mai stato particolarmente bravo”.
“Quando invece veniva a cena da noi mi portava dei portachiavi o dei piccoli distintivi dell’Inter. Erano confezioni con tanta di quella carta attorno. Lui si divertiva a sfogliarla con lentezza: -Ancora carta? Mamma mia e quanta ce n’è?-, diceva, aumentando la mia curiosità di bambino. Era un nonno affettuoso, che sicuramente mi ha fatto sentire il calcio e l’Inter”. Da vicinissimo. “Una volta ero andato anche negli spogliatoi con lui, prima di una partita: mi ricordo Mazzola, il rumore dei tacchetti”. Anche dopo il ritiro, Peppino rimase sempre nell’orbita nerazzurra. “Gli piaceva molto lavorare con i ragazzi, fece anche il responsabile del settore giovanile dell’Inter. Mentre da allenatore non ha avuto una carriera strabiliante: come mi disse Moratti, Meazza il calcio ce l’aveva dentro, per lui non era facile insegnarlo”.
“E che emozione quando gli hanno dedicato lo stadio nel 1980! Una scelta che aveva unito tutta la città. C’erano tutti, quel 2 marzo: famiglia, dirigenti, politici. Ero molto orgoglioso e ormai pienamente cosciente di quel che significava mio nonno. Sapevate che Peppino Prisco teneva la sua foto sul comodino? Accanto alla mamma e a Ronaldo”. Meazza jr. è una vera enciclopedia. “Sono un po’ fuori allenamento, ma una volta sapevo a memoria tutti i risultati della Serie A in corso”.
Calcio e Inter appunto, come il campione. “Oggi sono presidente dell’Inter Club di Madrid, nato a luglio 2018. Abbiamo la sede in un bar con spazio dedicato: siamo più di quaranta, per lo più italiani ma c’è anche qualche spagnolo sfegatato. Ci troviamo anche con gli altri Inter Club per il paese: l’ultima volta abbiamo fatto una partitella Madrid-Barcellona in chiave nerazzurra”. E chi ha vinto? “Il Barça, ma l’importante è come sia finita nel 2010”. A nonno Peppìn scapperebbe un sorriso.