Ci sono voluti undici mesi per piegarlo. Gigi Simoni non ce l’ha fatta. Ci ha lasciati questa mattina, dopo quel maledetto ictus che all’inizio della scorsa estate lo aveva costretto in un letto di ospedale a Pisa, la città di sua moglie Monica. Dal 22 giugno al 22 maggio, beffa del destino: morire proprio nel giorno che l’Inter festeggia il decennale del triplete.
Il fato nerazzurro ha sempre questo retrogusto amaro: l’impossibilità di gioire pienamente di un momento, la consapevolezza di avere sempre un’amarezza dietro l’angolo.
Ronaldo e la Coca Cola
Gigi Simoni conosceva bene quel sapore. Guidò l’Inter a fine anni ’90, con garbo, competenza e alzando la voce solo una volta, a Torino per il celebre intervento di Iuliano su Ronaldo non sanzionato da Ceccarini. Gli costò uno scudetto e il tradizionale aplomb. La scena madre di una stagione meravigliosa, culminata nel 3-0 alla Lazio in finale di Coppa Uefa.
Quella che tutti ricordiamo per il doppio passo di Ronaldo davanti a Marchegiani. Il punto esclamativo di un’annata in cui il Fenomeno rideva, dribblava e segnava. Merito di un allenatore che aveva saputo coccolarlo e stimolarlo. Il loro rapporto andò oltre il campo. Simoni gli permetteva di bere la Coca Cola e lo lasciava libero di esprimere il meglio di sé. In cambio ricevette 34 gol e l’amore di un ragazzo di 21 anni che il giorno dopo la vittoria in Coppa Uefa gli rasò i capelli.
Gigi Simoni aveva 59 anni all’epoca e aveva appena raggiunto l’apice di una carriera passata a portare le squadre in serie A: 7 promozioni, nessuno come lui. Due volte al Genoa, due a Pisa e altre tre divise tra Brescia, Cremona e Ancona. Un cammino iniziato a metà anni ’70 e chiuso nel nuovo millennio. Non era mai cambiato. Un signore nato a Crevalcore, nella provincia emiliana e affermatosi nelle periferie del calcio. Il suo mestiere era vestirle bene e portarle nel mondo dei grandi. Perché prima del Fenomeno aveva allenato tanta normalità rendendola straordinaria.
La favola Cremonese e il dramma del figlio
Come quella Cremonese che fece trionfare a Wembley nel torneo Anglo-Italiano. Vinse a Londra e a Parigi, ma anche in campi di periferia. Con lo stesso stile pacato guidava undici uomini a Carrara in C1 o all’Olimpico. La Lazio a metà anni 80 fu la sua prima grande piazza, anche se per poche settimane. Una parentesi metropolitana in una vita di provincia. Una traiettoria cambiata prima da Ferlaino, che lo chiamò a Napoli come consulente e poi da Moratti che gli mise in mano una fuoriserie. Una squadra di valore affidata a un uomo di valori. Un matrimonio che durò un anno e mezzo, perché poi arrivò un esonero doloroso. Dopo una vittoria col Real Madrid in Champions, nel giorno in cui i suoi colleghi gli consegnavano la Panchina d’Oro. Era il 30 novembre del ‘98 e fu un dolore enorme. Minore di sicuro rispetto a quello di undici mesi dopo, quando perse suo figlio Adriano per un incidente in moto. Gigi era allenatore del Piacenza e da un mese era diventato nuovamente padre.
Visse il suo dolore nello stesso modo in cui visse le sue gioie. Silenziosamente, come se n’è andato. È paradossale che il mondo lo ricordi per quella sfuriata con Ceccarini, per quel “si vergogni” del 26 aprile 1998. Un gesto di stizza in una carriera di buone maniere. Anche da calciatore. Giocò nel Torino di Meroni, a lungo per Brescia, Genoa e Mantova e più brevemente nella Juve e nel Napoli, dove fu capace di vincere una Coppa Italia partendo dalla B. Qualcosa che non è più riuscito a nessuno. Come fare ridere Ronie. Come vincere a Wembley con la provincia grigiorossa. Come fare sette promozioni e gioire senza spettinarsi. A meno che non ci sia un Fenomeno pronto a cambiare tutto.
La capigliatura e la vita di un uomo rimasto sempre signore. Con la testa rasata dopo un trionfo o dopo la morte di un figlio. Addio Luigi Simoni, per sempre Gigi.