Il calcio, così come lo sport in generale, è un momento di scambio e condivisione. Ma nella storia, da un emisfero all’altro, è stato anche strumento delle più feroci dittature, e si è rivelato un’arma tanto pericolosa quanto efficace di propaganda. Hitler e Mussolini seppero insidiarsi silenziosamente nei meccanismi dello sport per manipolare l’opinione pubblica a favore del regime. L’imperativo era affermarsi come potenze imbattibili non solo in campo militare ed economico, ma nella società e quindi nello sport. La Germania puntò sull’intransigenza della razza: divenne obbligatorio il saluto nazista, così come quello fascista in Italia e i giocatori dichiarati marxisti o -peggio ancora- ebrei, furono costretti ad abbandonare le loro squadre con destinazione i campi di prigionia. I club orientati all’ebraismo, detti Judenklubs furono boicottati fino al caso estremo della deportazione a Dachau del presidente del Bayern Monaco.
Mussolini rese la Nazionale italiana la più forte di tutte, arrivando a naturalizzare giocatori argentini in cambio di denaro, in modo da schierare in campo, nel ’34, una formazione imbattibile Ci riuscì: Campione del Mondo nel ’34 e Olimpiadi nel ’36 in casa della Germania, sotto gli occhi di Hitler e Goebbels. Anche l’Europa “rossa”, dopo la Guerra, visse casi in cui la politica entrò prepotentemente nel calcio, talvolta militarizzando i club, o mettendoli nelle mani di burocrati e tutori del regime. Un esempio su tutti: Stalin. Non amava il calcio, ma la finale che l’URSS disputò contro la Jugoslavia, alle Olimpiadi di Helsinki del ’52 divenne questione di supremazia nazionale, di vita e di morte per i giocatori che scesero in campo. I sovietici persero e al ritorno in patria furono umiliati pubblicamente e squalificati. Evitarono una pena più crudele solo perché Stalin morì in quello stesso anno.
Anche oltreoceano, questo sport servì ai governi autoritari come strumento di consenso e anestetico per il dolore di persecuzioni e torture. In Brasile il generale Emilio Medici Garrastazu sfruttò La Coppa del Mondo vinta dalla Seleçao in Messico ’70, per “distrarre” il popolo dai soprusi e le ingiustizie commesse dal regime. Caso simile in Argentina: dopo Peròn salì al potere Jorge Rafael Videla, che comprese presto l’ascendente del calcio sulle masse e seppe sfruttarlo a pieno. Ottenne l’assegnazione dei Mondiali del ’78. L’Argentina arrivò in finale con l’Olanda di Cruyff che per protesta contro le violazioni dei diritti umani, non partecipò alla competizione. Vinse 3-1, si decretò Campione del Mondo e permise a Videla di ultimare il processo di esaltazione patriottica.
Anche in tempi più recenti la violazione dei diritti umani ha avuto a che fare col calcio. Nel 2010 la Corea del Nord, tra i più autoritari ed oppressivi regimi, ha riservato alla Nazionale rientrata dai Mondiali del Sudafrica, un trattamento umiliante e denigratorio. I giocatori sono stati costretti a denunciare il loro allenatore, Kim Jong-Hun, che con l’accusa di tradimento, è stato condannato ai lavori forzati.
Nel 2013 un’aspra polemica ha accompagnato gli Europei Under 21 che si sono svolti in Israele. I sostenitori della causa palestinese hanno manifestato costantemente l’indignazione per un evento che è sorto sulle macerie della pulizia etnica e territoriale che ha lacerato la Palestina. Tutti gli stadi, da Tel Aviv a Gerusalemme, sono stati costruiti sulle ceneri di villaggi o in luoghi simbolici della persecuzione. Ai tifosi palestinesi inoltre, è stato vietato lo spostamento dalla Cisgiordania a Israele per assistere alla competizione, fatta eccezione per chi fosse in possesso di un permesso rilasciato dal paese ospitante.
C’è chi però, con un gesto eroico, si è ribellato. Nei Mondiali del ’74 divenne famoso Joseph Ilunga Mwepu, giocatore dello Zaire (non cercatelo sul mappamondo, oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo), che durante la partita con il Brasile, fece un gesto apparentemente inspiegabile: sul 3-0 per il Brasile, Rivelino ebbe l’occasione di aumentare il vantaggio. Ma prima di poter battere la punizione si staccò dalla barriera proprio l’attaccante africano che calciò il pallone il più lontano possibile. Non un gesto folle, ma la risposta al suo dittatore Mobutu Sese Seko, che alla vigilia di quella gara minacciò l’intera squadra: "Se perdete per più di 3-0 nessuno tornerà a casa vivo”. Un atto eroico, che salvò la vita a Mwepu, e fece sembrare il calcio portatore di quei valori universali che sancisce la Carta dei Diritti del ’48.