Borghi, pupillo a sua insaputa: "Al Milan non ho fallito"
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Data: 10/05/2020 -

Borghi, pupillo a sua insaputa: "Al Milan non ho fallito"

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Dalla sua esperienza al Milan da calciatore fino ai successi da allenatore, aneddoti e retroscena di Claudio Borghi
Dalla sua esperienza al Milan da calciatore fino ai successi da allenatore, aneddoti e retroscena di Claudio Borghi

"Il calcio e il sesso sono uguali: tutto il mondo crede di farlo bene, ma nessuno può dimostrarlo". Così Claudio Daniel Borghi rispose alle critiche durante una conferenza stampa, quando nel 2010 sedeva sulla panchina del Boca Juniors. Banale mai, in campo come nella vita. Sempre alla ricerca della giocata, forse anche esagerando. El Bichi, soprannome datogli dal padre, in pratica è diventato il suo nome, visto che Claudio lo chiama solo sua moglie. L'ex trequartista del Milan, oggi 55enne, si trova a Santiago del Cile, città in cui vive da circa trent'anni. "Da cinquanta giorni sto a casa e cerco di passare questo momento nel modo migliore. La situazione sta peggiorando, ci sono sempre più morti e la gente non si è resa conto della realtà" racconta a Gianlucadimarzio.com.

Berlusconi unico, Sacchi esigente

Nato a Castelar in Argentina e cileno d'adozione, in Italia ha giocato una stagione, alla fine degli anni ‘80. Sarebbe dovuto tornare quest'estate, per visitarla con suo figlio. "Ho dei bei ricordi. In quegli anni era difficile arrivare in Europa, perché potevano essere tesserati solo due stranieri. Sono arrivato in un club potente come il Milan, in un momento complicato". Famoso per la rabona, il gesto tecnico che usava per evitare di calciare col sinistro, Borghi è stato a lungo il pupillo del presidente Berlusconi. "Non mi ha mai fatto notare la sua preferenza nei miei confronti. Ricordo che stava molto attento a dei piccoli, ma grandi dettagli, come la cura per i denti o l'abbigliamento. L'immagine che dava un giocatore del Milan era molto importante per lui. Si preoccupava di tutti i giocatori. Non mi era mai successo con altri presidenti".  

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In quel Milan però non c’era spazio per lui, anche per una questione di regolamento, e i rossoneri decisero di mandarlo in prestito. A Como, in un club che doveva lottare per non retrocedere.  Ma guai a considerarlo un fallimento. "Quando arrivai al Milan mi dissero che se avessi giocato bene il Mondialito sarei rimasto e così è stato. Venni nominato miglior giocatore del torneo. Sacchi poi fece benissimo con Gullit e Van Basten: mi sono trovato a competere con due grandi campioni e quindi sono dovuto andare via". In biancoblù poche presenze e sulle rive del lago si sente incompreso. “Il problema è che non ero il giocatore che serviva al Como: io pensavo solo ad attaccare e loro solo a difendere".  

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L'allenatore di quel Milan era Arrigo Sacchi. Un rivoluzionario che ha influenzato anche il suo modo di allenare. "Era particolare nei modi e nello stile. Ho letto un'intervista poco tempo fa in cui Van Basten disse che amava Milano ma non Sacchi (sorride, ndr). Era molto esigente, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto fisico. Chissà, forse non avendo giocato a calcio non capiva che a volte esagerava. Però i risultati gli hanno dato ragione. Ha rivoluzionato il calcio italiano e vinto tutto". Una realtà molto lontana da quella attuale, con il club rossonero fuori dalla Champions da sei stagioni. "I nuovi proprietari devono decidere se lottare per le prime posizioni o per metà classifica. In questo momento ho la sensazione che l'Inter stia lavorando molto meglio".

Il ritorno in Sud America e la carriera da allenatore

Dopo la conclusione dell'esperienza in Italia si è trasferito in Svizzera e ha giocato in Brasile, Argentina, Messico e Cile. In un calcio con meno tatticismi. Nel 1999, a 33 anni dice basta e si ritira con la maglia dei Santiago Wanderers, dove ha condiviso lo spogliatoio con un giovanissimo David Pizarro che qualche anno dopo rifiuterà la convocazione in nazionale proprio con lui come ct.

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Nel 2002 la prima esperienza in panchina, all’Audax Italiano. Al Colo Colo è stato eletto miglior allenatore del Sud America nel 2006. Poi l'esperienza fugace all'Independiente (lui tifoso dei rivali storici del Racing), Boca e Argentinos Juniors, la nazionale cilena e la LDU di Quito. "Preferisco la carriera da giocatore che quella in panchina. Ho vinto campionati in Argentina e in Cile, ma io preferivo giocare: sono mestieri differenti".  Probabilmente i successi del Mondiale '86  e della Libertadores con l'Argentinos Juniors, la squadra in cui è cresciuto, hanno un peso diverso.  

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In carriera ha potuto allenare grandi talenti. Da Aléxis Sanchez a Vidal, da Riquelme a Palermo fino a Paredes. "Nella mia top 3 il migliore è stato Riquelme, un giocatore molto dotato tecnicamente e intelligente. Poi Mati Fernandez, nella stagione 2006 fu spettacolare. Al terzo metto Valdivia, eccezionale nell'ultimo passaggio. Giocatori simili adesso stanno scomparendo. I top club cercano altre caratteristiche. In Sud America ci sono molti giocatori tecnici, ma influenzati dal calcio europeo. In Europa pagherei il biglietto per vedere Messi e Ronaldo o per il Barcellona, che gioca bene di squadra. Gli allenatori giovani copiano gli stili dei grandi, ma molte volte non hanno gli interpreti per replicarli".

L'elogio di Platini, Dybala e Lautaro

Differenze di stili e di culture calcistiche tra Europa e Sud America diminuite negli ultimi anni, per quanto il divario tecnico ed economico sia aumentato. Una volta non era così. Basti pensare alla  Coppa Intercontinentale 1985, quando l'Argentinos Juniors si arrese solo ai rigori contro la Juventus a Tokyo. Fu il primo vero impatto di Borghi con il calcio italiano e in quell'occasione Platini lo definì 'Il Picasso del Calcio'. "Quella partita non l'ho più rivista, nonostante venga trasmessa spesso in tv. Fu una finale atipica, con un bel calcio e dei bei gol: il risultato rimase in bilico fino agli ultimi minuti" ricorda El Bichi, ripensando a una prestazione che attirò l’attenzione di tanti grandi club.  

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A metà anni ‘80 Claudio Borghi era una stella argentina inseguita dai top club. Oggi due suoi connazionali sono i top player di Inter e Juve: Lautaro e Dybala. “Martinez è un centravanti che non fa solo gol. Si parla del Barcellona, ma non so se sia pronto. Suarez inizia ad avere un'età, può darsi che ci sia bisogno di un ricambio. Andare al Barça per lui potrebbe essere attraente, ma avrebbe maggiori pressioni. Ci penserei bene prima di trasferirmi, anche se il calcio spagnolo in Sudamerica è molto più seguito”. Discorso diverso per l'attaccante della Juventus, che un po' come Borghi con Maradona, in nazionale fatica a giocare con Messi: "Con l’Argentina non riesce a mantenere il livello che ha nel club. Gli pesa tanto la camiseta. Forse però ci aspettiamo troppo da lui. Quando giochi con grandi giocatori può essere difficile avere la stessa velocità di pensiero. A me con Maradona succedeva questo: è più facile giocare con compagni meno talentuosi per mettersi in luce". Oggi El Bichi fa l’opinionista per la tv cilena. Le sue parole sono come rabone. Puntuali e sfrontate. Come pennellate di Picasso. 

 

A cura di Mattia Zupo

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