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Data: 11/11/2020 -

Sacchi: "Esiste un legame tra calcio, cultura e vita: ne sono convinto"

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Uno scudetto, due Champions, due Coppe Intercontinentali, e un Mondiale sfiorato. Arrigo Sacchi non allena più ma resta sempre un grande appassionato di pallone. In un’intervista rilasciata a Eurosport.fr, l’ex allenatore di Milan e Parma ha rilasciato dichiarazioni interessanti sul calcio di oggi. Un calcio che lo rende più felice: “La media di 3,7 gol a partita mi rende contento. Il nostro modo di vivere e vedere il calcio riflette il modo di vedere la storia e la società di un paese. Noi italiani non abbiamo più attaccato dai tempi dei romani. Ci abbiamo provato, invano. Nel calcio praticavamo una filosofia prudente, difensiva. La nostra forza era la tattica, ma non la strategia. Vincere senza guardare alla maniera con cui vincevamo. Non ci interessava, e questo non ci ha permesso di crescere. L’ottimismo non è vivere nel passato, ma guardare al futuro”.

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Un discorso che è partito dal calcio e che ha poi toccato molti altri aspetti: “Col tempo ci siamo acculturati. Questo mondo sta cambiando. Resto convinto del legame che esiste tra calcio, cultura e vita. Noi italiani abbiamo sempre avuto uno stile nella moda, ma non nel calcio. Il catenaccio non può rappresentare un esempio di stile calcistico. Coloro che fondarono il calcio lo avevano concepito come un gioco offensivo, uno sport di squadra. Da noi questo concetto si è perso: lo abbiamo trasformato in uno sport difensivo e individuale. Il mio Milan, l’Ajax o il Barcellona di Guardiola attaccavano in undici e difendevano in 11: quelle squadre sono state l’esaltazione del collettivo in continua evoluzione. Il nostro dogma era ‘vinci, diverti e convinci’. Ricordiamoci che Giulio Cesare ha conquistato la Gallia in 50.000 uomini contro 300.000, e tutto questo grazie a una strategia perfetta. Quella era una vera squadra”.

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Arrigo Sacchi ha toccato per la prima volta il tetto d’Europa nel 1989. L’ex allenatore rossonero ha raccontato un aneddoto curioso: “Due anni fa, alla fine di una conferenza a cui avevo preso parte, un tifoso mi fece vedere la prima pagina de L’Equipe (quotidiano sportivo francese, ndr) all’indomani della nostra vittoria in Coppa Campioni per 4-0 contro la Steaua Bucarest. C’era scritto ‘Venuti da un altro mondo’. Nell’articolo, il giornalista diceva che si sarebbero aspettati che noi avessimo smesso di attaccare dopo l’1-0, e che avessimo iniziato a utilizzare il catenaccio. Invece abbiamo continuato. Per me questi valori stanno al di sopra di tutto”. Il pensiero, prima della tecnica: “Io non guardavo i piedi dei miei giocatori, ma la loro mentalità, il loro modo di pensare, la loro disponibilità, la loro modestia, il loro entusiasmo. Non volevo individualismi, gelosie o avidità nel mio gruppo. Oggi penso che il mondo stia andando in quel senso. Il pubblico giudica le vittorie: se vinci, ma senza convincere, la vittoria resterà negli almanacchi, ma non rimarrà nella mente delle persone”, racconta a Eurosport.fr.  

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Impensabile non arrivare a parlare dell’Atalanta, che sta praticando uno dei migliori modi di giocare nel calcio italiano: “La partita contro l’Ajax è da far vedere a tutti i bambini. È stato uno spettacolo, e lo spettacolo è la dove c’è divertimento. L’anno scorso in Champions stavano per compiere un capolavoro. Poi si può anche perdere se gli avversari sono più forti. Il Napoli di Sarri non ha vinto niente, ma vi ricordate lo striscione dei napoletani ‘Grazie per le emozioni procurate’? Che bellezza. Non avevano vinto, ma avevano capito. Oggi vedo delle piccole squadre che tentano di imporre il proprio gioco, come il Crotone, l’Hellas Verona o lo Spezia. È la rivoluzione delle piccole squadre”.

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Dare tutto, divertirsi per rimanere impressi agli amanti di questo sport, per sempre: “Un giorno un mio calciatore mi disse che non si stava divertendo perché c’erano carichi di lavoro troppo alti secondo lui. Io gli risposi che se avessimo lavorato poco avremmo raccolto poco, e che se avessimo dato tutto avremmo avuto più possibilità di essere ricordati per tutta la vita. Sono venticinque anni che io non alleno più, ma dovunque vada la gente mi chiede sempre foto o autografi. Significa che sono riuscito a dar loro qualcosa. Non dimentichiamoci mai che il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti”.  

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Infine, un commento sul mondiale del 1994 perso ai rigori: “Il Brasile giocava meglio e meritava di vincere. Io ho sempre voluto vincere meritando: per me, questo, è sempre stato un valore importante”.



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