“Giocavo nella squadra di mio padre e quando voleva dare una lezione ai tutti interveniva su di me. Ero un ragazzo semplice e sono sempre rimasto così. Fascetti mi ha dato fiducia quando mi ha fatto esordire a 16 anni. Lui ha sempre avuto occhio per i giocatori giovani, così è stato anche con Cassano. Non mi paragono a lui che ha molto più talento rispetto a me, ma entrambi siamo cresciuti in mezzo alla strada. Mazzone, poi, mi ha fatto crescere anche da un punto di vista di sofferenza. Mi ha insegnato tanto”. Poi è arrivata la Juventus: “Sapevo che c’erano degli osservatori che mi seguivano negli allenamenti e nelle partite. Fu un cambiamento molto importante. Se qualcuno mi avesse detto che arrivato a Torino sarei rimasto 13 anni, vincendo tutto e che sarei diventato capitano gli avrei risposto di farsi a curare… Avrei firmato per un terzo o per un quarto di quello che ho avuto dalla Juventus. Anche se tante volte ho pensato: ‘Ma chi me l’ha fatto fare di lasciare casa mia per essere meno felice?’. Il punto è che non volevo tornare a Lecce da sconfitto”.
Dalla Juventina Lecce alla Juventus. Poi la Nazionale e ora il Chelsea. Antonio Conte si racconta, a 360°. Soddisfazioni e delusioni, speranze e paure confessate a Paolo Condò, nella prima puntata della stagione di “Mister Condò” su Sky Sport. L’allenatore dei Blues ripercorre la sua carriera, a partire dall’infanzia in strada: “Un periodo bello in cui ho imparato tanto - racconta Conte - il campo di Sant’Antonio a Fulgenzio era rovinato ma noi avevamo tanta voglia di giocare. Quindi il prete ci faceva giocare in cambio della nostra presenza in chiesa durante la messa. Oggi le possibilità sono diverse, c’è meno voglia di soffrire e di lottare per ottenere qualcosa. Manca il talento “da strada”, dove una volta si sviluppavano le abilità”.