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Heysel, 31 anni dopo. Francesco Caremani: “Dovevo essere lì. Invece oggi ne scrivo, per non dimenticare, mai”

Francesco Caremani doveva essere all’Heysel quel 29 maggio 1985. Un brutto voto in latino però non gli fece vincere la scommessa con papà, così niente finale come premio. Lui, nato ad Arezzo, amico della famiglia Lorentini, di Otello e Roberto, che invece a Bruxelles ci andarono. Roberto però non sarebbe più tornato: è uno dei 39, morto per una partita di calcio, morto a 31 anni da eroe perché dopo aver salvato papà Otello tornò indietro per cercare di soccorrere altre persone: era un medico, non ce la fece. Otello trasformò quel dolore incalcolabile in una battaglia civile, creando un’associazione dei familiari delle vittime per ottenere giustizia: Otello non voleva vendetta – racconta ai microfini di GianlucaDiMarzio.com non gli interessava nemmeno sapere quanti anni di galera avrebbero scontato gli assassini: voleva che un tribunale dimostrasse le responsabilità delle autorità”. Ci riuscì nel 1991, dopo un processo che in primo grado aveva assolto tutti ma che alla fine vide la condanna della Uefa e delle autorità belghe.

Un giorno Otello mi disse: vorrei che tu scrivessi quella che è stata la mia vita, le mie verità. Verità al plurale: perché la verità è un concetto che ha un alone mistico che non mi si addice, mentre parlare di tante verità significa andare a cercare cause e responsabilità, per riportarle alla memoria e per evitare che vengano dimenticate. E invece questa vicenda è stata dimenticata per tantissimi anni: questo vuoto ha acuito il dolore dei familiari delle vittime, tant’è che alcuni non fanno parte dell’associazione che è stata rifondata recentemente da Andrea Lorentini, nipote di Otello e figlio di Roberto. Alcuni non hanno più voglia di combattere. Negli ultimi anni però c’è stata una presa di coscienza da parte di tutti, mi piace pensare che sia in parte anche merito del mio libro” (Le verità sull’Heysel. Cronaca di una strage annunciata. Libri di Sport, 2003).

La partita fu giocata per evitare di peggiorare la situazione, forse fu l’unica decisione sensata di quella sera. La Juve stava già andando via, ma per evitare che Bruxelles si trasformasse in un campo di battaglia fu chiamata a tornare indietro. Una decisione che all’inizio nemmeno Otello capì, con il cadavere di suo figlio accanto: ‘qui sono tutti matti’. Poi però si rese conto che era l’unica soluzione per evitare l’imponderabile. Perché il ponderabile, purtroppo, era già successo. Incredibile come sia stato permesso che le famiglie di italiani venissero sistemate nel settore Z. Un settore che in realtà faceva parte della curva occupata dagli hooligans e che era un’unica area: XYZ. Nei biglietti degli italiani erano cancellate col pennarello le lettere X e Y, in quegli degli inglesi la Z. La causa scatenante fu l’attacco degli hooligans, che però vennero messi nelle condizioni ideali per sferrarlo. E il concetto di hooligans va al di là della nazionalità, del tifo: è pura violenza. Perché in altri settori c’erano inglesi e italiani che si scambiavano sciarpe e si fotografarono insieme. Capire come quei biglietti, venduti solo per guadagnare, siano finiti in mano agli italiani, è forse una delle uniche cose che non sono riuscito a sviscerare e approfondire bene”.

“Oggi, con Andrea Lorentini andiamo spesso nelle scuole: perché la memoria va allenata ogni giorno. Non è facile, perché parliamo di qualcosa che i ragazzi non hanno vissuto. Ma ora che Otello non c’è più mi sento ancora più in dovere di portare una testimonianza.” E pensare che questi ragazzini hanno l’età di Giuseppina Conti, un’altra vittima di Arezzo, la seconda più giovane dei 39. Aveva 17 anni e a differenza di Francesco andava bene a scuola: per questo papà Antonio le regalò la finale di Coppa dei Campioni. La ritrovò in mezzo alla calca, avvolta in una bandiera. “Il dolore che ho scorto nello sguardo di Otello e Antonio è come un pozzo senza fondo, che ti spegne l’anima“. Giuseppina non ce la fece, altri sì e si ritrovarono soltanto alle 4, alle 5, alle 6 del mattino, dopo aver bussato nelle case dei belgi per chiedere di fare una telefonata in Italia. Molti ricevettero una porta chiusa in faccia, altri spesero tutti i soldi per chiamare dai telefoni pubblici.”

Una guerra, per una partita di calcio. 31 anni dopo e negli anni ancora a venire, è un dovere ricordare, è naturale che il rispetto venga dato anche senza essere chiesto. E il ricordo passa dalla testimonianza, dopo essere passato attraverso la giustizia. Perché non si verifichino mai più simili tragedie nel calcio; perché il calcio resti soltanto un gioco: bellissimo, intenso, sofferto, sentito. Ma mai violento. E affinché quel (+)39 sia un monito, un numero tatuato nel cuore di ogni tifoso che ama questo sport. Perché amore e odio, quindi violenza, non potranno mai andare di pari passo.