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Guarín: “Ero immerso nell’alcol: 60, 70 birre a sera. Andavo nelle favelas…”

Il racconto di Fredy Guarín

Fredy Guarín ha vestito tante maglie importanti: da quella del Boca Juniors a quella del Porto, ma il capitolo più importante della sua carriera l’ha vissuto nella Milano nerazzurra. Il centrocampista colombiano si è trasferito all’Inter nel gennaio del 2012, e ha disputato ben 141 partite, trovato la rete in 22 occasioni. Guarín, però, ha trascorso anche dei momenti molto complicati, raccontati da lui stesso in un’intervista rilasciata a Los Informantes di Caracol Television.

Il racconto di Fredy Guarín

Guarín ha parlato dei suoi problemi, iniziati con l’arrivo in Italia: “Ho iniziato a farmi un nome in Italia ed è lì che è cominciato tutto, anche fuori dal campo. La gestivo molto bene: mi ubriacavo 2 giorni prima della partita, poi arrivavo in campo e le cose andavano. Lavoravo più di quando non bevevo, forse per il senso di colpa. Bevevo a casa, al ristorante, in discoteca e cercavo compagnia. Champagne ovunque, le migliori modelle… Avevo la mia famiglia, ed era lì si complicavano le cose. Sapevo che stavo sbagliando“.

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Sulla scelta di lasciare Milano e andare in Cina: “Avevo perso l’obiettivo di avere una famiglia e gli obiettivi nel calcio. Sentivo che non c’era un limite: ero completamente immerso nell’alcol. Il mio agente e io ci siamo detti: “Bisogna andare via, non si può più restare a Milano”. Sono andato in Cina e lì sono completamente degenerato nell’alcolismo. Mi alzavo, andavo all’allenamento, e dopo alcol…“.

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Sull’esperienza in Brasile: “Sono stati sei mesi che mi hanno fatto sentire I’uomo più felice del mondo… 50, 60, 70 birre in una notte. Poi è arrivata la pandemia: non c’erano gli allenamenti, non c’era il gruppo e nemmeno il calcio. Andavo nelle favelas, stavo con una ragazza qualsiasi e mi abbandonavo completamente. Andavo a cercare il pericolo da ubriaco. L’ho chiamata adrenalina, vedere le armi, il movimento: non percepivo il rischio“.

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Guarín non si è trattenuto e ha aggiunto: “Mi addormentavo e mi svegliavo con la birra accanto, per poi ubriacarmi di nuovo. Vivevo al 17esimo piano, mi ero disconnesso dalla vita e la mia reazione fu quella di buttarmi. C’era una rete sul balcone, saltai e mi ributtò indietro. Non ero cosciente di quello che facevo. In quei tempi si diceva che il COVID uccidesse… la mia mente era ossessionata dalla morte. Ero solo con il mio problema di dipendenza. Sapevo che con qualsiasi ubriacatura sarei morto. Era la morte o il carcere… Nessuno sapeva qualcosa al di fuori dalla mia cerchia di amici, ma è andata cosi“.