Gavetta e sacrifici, la storia di Colella: “Vicenza, la mia felicità…”
La storia di Giovanni Colella è un inno davvero sincero a quella frase ‘crederci sempre, mollare mai’ di cui troppo spesso, scoraggiati e afflitti dal fardello di una realtà non sempre benevola, ci dimentichiamo. E’ un messaggio importante a chi, anche solo per la prima volta, si approccia al mondo del calcio con la pretesa di spaccare il mondo. E’ un messaggio ai giovani, alla necessità indefettibile di ritrovare quella cultura del sacrificio che oggi abbiamo, per buona parte, perso. Vogliamo tutto e subito, sennò desistiamo. Andiamo a piangere da mamma e papà, pensiamo che tutto ci sia dovuto.
Oggi Giovanni Colella è, meritatamente, agli onori della cronaca sportiva per l’inizio di stagione davvero brillante sulla panchina del ‘nuovo’ L.R. Vicenza Virtus targato Renzo Rosso: diciannove punti in undici partite e secondo posto nel girone B di Serie C. Una simbiosi fantastica con una piazza che dopo un’annata davvero buia, conclusasi con il de profundis, è finalmente tornata a sognare.
Dietro alla bella realtà, però, c’è tutto un mondo di cui – erroneamente – ci precludiamo conoscenza. Il mondo del sacrificio. Perché se la fortuna è per pochi, l’abnegazione è per tutti. Serve rimboccarsi le maniche, sporcarsi la faccia, dormire poco ed essere sempre cerebralmente attivi. Dal cielo, d’altronde, tranne acqua e neve non arriva nient’altro. “Se il calcio è stato e sarà sempre la passione che colora la mia vita, per molto tempo non è stato niente di più che un hobby. Mi serviva giusto per arrotondare e per tenermi incollato a quel mondo che sognavo, sognavo, sognavo. Ma niente di più. La realtà era un’altra. Di soldi nel calcio se ne vedevano pochi, giocavo nell’Interregionale veneto, erano più o meno pari alle spese, ma io li investivo per corsi e aggiornamenti. Dicevo tra me e me, ‘non so se arriverò mai, ci provo, ci metto tutto me stesso poi come va va, non avrò rimpianti’. E così per guadagnarmi da vivere, davvero, andavo a fare la stagione a Jesolo tre o quattro mesi l’anno e poi a portar via la frutta dagli alberghi. La mattina la sveglia suonava alle 4.30, lavoravo fino alle 13 e poi il pomeriggio mi andavo ad allenare. Era un po’ tutto un arrangiarsi e un correre da una parte all’altra, ma io volevo fare l’allenatore, vivevo per quello”. Gli anni passano, Colella smette presto di giocare perché “erano più i giorni a casa sul divano con la busta del ghiaccio che quelli in campo” e intanto continua a portare avanti il suo sogno. Con passione, con determinazione, con umiltà. In punta di piedi, senza bussare, interiormente. Perché non di ogni cosa dobbiamo darne contezza esteriore, non di ogni cosa dobbiamo darne spettacolo. Ognuno vive la sua vita e la virtù di far le cose sottovoce è probabilmente la strada maestra, allusione difficilissima nel mondo dei social e della iper condivisione dove passiamo le nostre giornate più a fotografarci che a fare.
“Decido di cominciare l’Università, Ingegneria, prima a Padova e poi a Ferrara. Avevo una discreta capacità di memoria, ma non ero uno studente modello. Poi comincio ad allenare, da San Donà a Belluno e decido di lasciare gli studi. Allenavo più per hobby che per un tornaconto, che non c’era assolutamente. Giravo, vedevo partite, ero libero solo la sera, dopo le 22, giusto in tempo per leggermi qualche trattato di Storia, di cui sono grande appassionato. Ecco – racconta Giovanni Colella ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – probabilmente se non fossi andato avanti nel mondo del calcio, mi sarebbe piaciuto fare l’insegnante di Storia”. Nelle sue parole c’è un profondo senso di realismo, di verità, oltre ogni maschera, oltre ogni inutile filtro. In una società dove ancora oggi continuiamo a divinizzare, non si sa per quale assurdo motivo, calciatori e cantanti, lasciando scappare all’estero le menti più eccelse tra l’indifferenza generale. E’ nella vanità di queste maschere il no-sense più assoluto.
“E’ preoccupante, davvero. Stiamo diventando una società piatta, intrisa di inutili formalismi”. Perché Giovanni Colella, uomo di grandissimo spessore culturale, è tutto l’opposto. Ma non nelle mille o duemila parole di questa intervista. Sempre. Ed esser ‘diversi’ spesso fa rumore in un mondo che vive di conformismo e omologazione (come se fosse l’unica strada percorribile o comunque quella più giusta)… “Quando ti fanno una domanda, devi rispondere quello che pensi non quello che l’interlocutore vuol sentirsi dire. Invece oggi parliamo per compiacere e il risultato è il drammatico appiattimento di cui parlavo poc’anzi, mancano degli opinion leader, delle linee-guida. Io sono abituato a dire quello che penso, se va bene ok sennò pazienza. Credo anche che se tutti facessero così la società sarebbe un pochino migliore, senz’altro più effervescente. Quando ero ragazzino alla domenica pomeriggio mi fermavo a vedere tutte le interviste post-partita, tutte uguali, tutte scontate, prima che cominciassero a parlare sapevi già quello che avrebbero detto. Io avrò avuto dieci o undici anni e dentro di me dicevo, ‘ma io se un giorno dovessi arrivare lì non posso permettermi di dire tutte ste stronzate qua’. Io, se posso, vorrei fare una domanda a te e a tutti voi che seguite il calcio e leggete Di Marzio: ma a voi veramente piace che giocatori, allenatori o chiunque sia quando si interfacciano con la gente dicano sempre quelle tre o quattro banalità? Perché difettiamo molto in questo, nel nostro essere privilegiati, non ci mettiamo mai dall’altra parte…”.
E’ nella semplicità di un pensiero così sincero la summa di un uomo a cui la vita davvero non ha regalato niente. Perché se arrivi che hai già tutto ben servito in tavola questo tipo di ragionamenti non li fai, li trovi anacronisticamente scontati, dovuti. “Io non mi sono mai attaccato a carri importanti, mi son sempre detto ‘Giovanni se arrivi arrivi, sennò non avrai rimpianti’. Oggi sono qui e mi ritengo una persona fortunata perché so da dove sono partito, so quanto fango ho dovuto mangiare. Ma sono arrivato qui e ci sono arrivato con le mie gambine, non esiste niente di più appagante di questo. Mi sveglio la mattina e sono contento di andare al lavorare, ogni giorno mi alzo dal letto e sono la persona più felice del mondo… fino a ieri potevo soltanto sognare di allenare al Menti davanti a 10mila persone. Mi fan ridere quando mi chiedono se ho paura, di un avversario, di una partita, di un esonero. Io ho avuto paura nella mia vita sì, quando non riuscivo a pagare il mutuo di casa o quando è nato mio figlio e stavo a casa disoccupato. Il resto sono cavolate, non scherziamo”.
Un’analisi lucidissima, oltre una contingenza che ci porta a lamentare sempre e spesso per cose inutili. Lamentiamoci solo quando c’è davvero bisogno di farlo, sorridiamo di più. Perché se affronti ogni cosa con il sorriso hai almeno il 20 % in più di riuscita, che sia psicologia o realtà poco importa, è vita. La vita di Giovanni Colella che dopo la gavetta – quella vera – in estate si è trovato catapultato in una Piazza con la P maiuscola, che trasuda passione, attaccamento, calcio in ogni sua declinazione… “Vicenza è questo, quando ho cominciato a bazzicare in città quest’estate ho capito che mi era successo un qualcosa di davvero bello. Vicenza ti assorbe a trecentosessanta gradi, ti porta ad andare oltre, a dare di più. Con l’ambiente si è creata una simbiosi eccezionale perché i tifosi hanno capito la bontà del nostro progetto, si lavora a testa bassa e si da il massimo. Non raccontiamo frottole, non vendiamo illusioni…”.
La vita, il lavoro, il successo (non nella deprecabile accezione dei reality show) è tutto molto più semplice di quello che possiamo pensare. E’ sacrificio, serietà, umiltà, lavoro. Non esiste il successo in sé. Esiste il successo di Giovanni, quello di Lorenzo, quello di Sara. Ognuno vince se mette tutto se stesso in quello che fa. E’ questo il successo. Semplice… “Come il calcio! Che purtroppo è stato banalizzato a tre o quattro moduli, abbiamo ridotto tutto ai numeri. Il calcio è organizzazione difensiva, qualità offensiva e strategia, che è cosa ben diversa dai moduli. Pensate al 4-4-2, ad esempio, puoi farlo difendendo nella tua area o alzando la difesa a metà campo e andando subito in pressione. Eppure è lo stesso modulo, allora vedete che è banale parlare in termini di numeri…”.
Salutiamo Colella, lo ringraziamo per questa splendida chiacchierata fortemente eterogenea: dal calcio alla cultura, dai giovani alle problematiche che affliggono la nostra società. Con un auspicio, che estendiamo a tutti noi, che ognuno davvero – come Giovanni a Vicenza – possa trovare il suo Sabato del Villaggio…